L'immigrazione è questione di corpi. Una lettura imprescindibile
"Sangue giusto" di Francesca Melandri, un libro ambizioso
Ho avuto un’estate di letture fortunate, la più importante delle quali è il romanzo di Francesca Melandri, “Sangue giusto”. Fortuna, perché se non fossi venuto in Alto Adige, dove l’autrice è stata a lungo di casa, non sarei stato avvertito. Mi sono chiesto come abbia potuto la mia distrazione letteraria arrivare fino a ignorare un libro così ambizioso e così forte – da mettere in soggezione, perfino. Al centro sta l’Italia fascista e razzista dell’Impero e dell’Etiopia, ma le vicende di tre generazioni di protagonisti attraversano la storia italiana fino ai nostri giorni. O quasi: uscito nel 2017, dopo uno studio e una stesura durati, dice l’autrice, cinque anni, il libro si conclude nel 2012, un anno dopo che il voto del parlamento italiano ebbe certificato che una ragazza di passaggio era la nipote di Mubarak, e nel giorno in cui il comune di Affile (Roma) dedicava un imponente sacrario alla memoria di Rodolfo Graziani, ingente criminale di guerra. Il pugno di anni che ci separa da quella conclusione, e in particolare gli ultimi mesi, bastano al lettore a sostituire la parola fine nell’ultima pagina con la parola continua: e come precipitosamente continua. L’Italia che nel novembre dell’anno scorso trovò un tribunale a condannare il sindaco di Affile (simbolicamente, 7 mesi, con la condizionale e l’ulteriore vanteria di lui) per l’apologia di Graziani del fascismo e del razzismo, di lì a pochi mesi, senza condizioni, fece auspicare dall’uomo nuovo del novissimo governo un censimento di zingari, compresa la maggioranza di rom cittadini italiani, che “purtroppo, ce li dobbiamo tenere”. Almeno a questo servono gli anniversari, a misurare quanto ci allontaniamo a ogni decennio dall’infamia, o quanto velocemente ci riavviciniamo. Avevo letto poco fa, con dieci anni di ritardo sull’uscita, il grosso studio di Francesco Cassata su Telesio Interlandi e “La Difesa della razza” (Einaudi): a 70 anni dalle leggi razziste, che ora ne hanno 80. Così sono stato avvantaggiato a leggere in Melandri di figure, figuri, come Lidio Cipriani. Melandri ha ragione di avvisare che non ha scritto un libro di storia ma un romanzo, che ha forse un protagonista, a suo modo un “beniamino della vita”, o degli dei o della sorte, un padre in gara per battere la morte o, almeno, per sopravvivere alla morte altrui. Ma il libro resta una storia – nel senso comune, non della disciplina – dell’Italia. L’ho detto: un’ambizione simile, e salva ogni altra differenza, ricorda la Storia di Elsa Morante, che là era lo scandalo che durava da 10 mila anni, una cospirazione contro il bambino Useppe e ogni bambino. In Melandri non c’è un’innocenza, nemmeno nella fatica della consapevolezza della giovane donna figlia e sorella, nemmeno nel giovane uomo etiopico fuggito avventurosamente ai postumi di quell’impero. Non c’è nemmeno l’universale chiamata di correo che trasformerebbe la sua voce in quella di un pubblico accusatore. C’è il racconto. Ma il racconto non ha sopportato di essere parziale. E’ come se l’autrice avesse disegnato una mappa completa – un’infografica, la chiamano ora – dei punti cruciali della storia dell’Italia di dentro e di fuori, e poi li avesse ricongiunti nell’invenzione di una trama autonoma di persone e circostanze e incontri. Forse, si può dubitare, i punti ricongiunti sono troppi e ne risulta, al di là della felicità narrativa, un racconto dell’Italia senza esclusione di colpi, per così dire. Vedo che in Germania, dove è stato tradotto da Wagenbach (Melandri è molto tradotta in questo e nei romanzi precedenti, che ora leggerò), il libro ha un formidabile riscontro e viene a volte raccomandato come una specie di rivelazione della storia d’Italia. Si può capire, dal momento che all’ombra della Germania hitleriana il nostro fascismo, il razzismo, il colonialismo e i crimini di guerra e contro l’umanità hanno potuto a lungo farsi piccoli. In Italia l’attenzione mi sembra relativamente minore, nonostante un grosso editore, Rizzoli, e recensioni ammirate. Non penso che bisogni farne l’occasione di un rinnovato dibattito storico, cui peraltro anniversari e cronaca quotidiana inclinano impetuosamente. Ma nemmeno che un imbarazzo, lo stesso che prende all’alternativa fra l’italiano brava gente e quello incattivito e oggi sguinzagliato, lo stesso del “buonismo” (“pietismo”, si chiamava e derideva dai razzisti orgogliosi di esserlo ottant’anni fa), faccia torto alla forza di un romanzo straordinario. Di cui voglio segnalare almeno un gran merito non solo letterario: Melandri sa parlare dei corpi, del corpo. Non succede spesso. Morante sapeva. Queste storie, guerra, iprite, stupri, viaggi in vagoni piombati e sterminii, riguardano i corpi: li conoscono con la competenza del torturatore e del macellaio, si accaniscono su loro, carni, ossa, muscoli, escrezioni, secrezioni, umori, rumori. L’immigrazione è questione di corpi. Noi ne siamo separati, anche linguisticamente, come un bagnante di Lampedusa è separato da una donna incinta e senza smalto. Noi non vogliamo saperne dei corpi, se non quando siamo invalidi o vecchi o malati, o addetti a invalidità e vecchiezze senza ritorno e malattie. Che parli di corpi sviscerati dai gas o di corpi scambiati nell’amore Francesca Melandri sa che la cosa sta lì: come potrebbe bene un’infermiera, forse, o una madre, o una donna, e forse anche uno di noi, uno qualunque.