La follia di una società che prende una madre e due bimbi e li butta via, in carcere
La tragedia di Rebibbia e quella della vita. Nessuna autorità era tenuta a temere che la donna infelice commettesse un atto simile. Ma era davvero necessario incarcerare una donna con due bambini?
C’è un compassionevole ascoltatore che chiama la buona radio per dire come l’ha colpito la tragedia – “greca”, la tragedia greca – della madre che ha scaraventato giù dalle scale della galera i due piccoli. (Li ha mandati in cielo, dirà lei – li ha fatti volare via dal nido, dolce nome regolamentare). L’ascoltatore passa subito ad allargare il suo umido sguardo all’intero orizzonte carcerario e incita con veemenza alla costruzione di nuovi carceri, così che oltretutto finiscano finalmente dentro quelli che – come sappiamo bene, dice – non ci vanno mai, se non hanno almeno una condanna a quattro anni.
Di qui prende le mosse la discussione della mattina di mercoledì su una delle più decenti radio italiane. Poche volte sono stato così combattuto. So che bisogna adattarsi a distinguere, entrare nel merito, vincere l’insofferenza – decine di anni di proclami sullo scandalo di tenere i bambini carcerati scavano altro che le rocce – curare i dettagli: infatti niente è importante alla galera quanto le piccole cose. Dunque modulare la voce, non troppo sdegno, non troppa naturalezza, e chiedere come sia possibile mandare in cella una donna sbandata, alla lettera, di trent’anni, non con un bambino ma con due, piccolissima una piccolo l’altro, due anni in due, per quale colossale pericolosità pubblica e privata? Era così difficile calcolare di quanti punti l’ingresso di quei due cuccioli con la loro madre – la loro tigre, secondo la tragedia, secondo la Colchide e tutto il resto – avrebbe fatto salire la percentuale di bambini sotto i tre anni detenuti in Italia? Quanto fa in percentuale due su 60? Quante sono le madri detenute che debbano prendersi cura non di uno ma di due figli, in quella condizione, che non siano madri ragazze rom, che sanno come si fa, e le statistiche vorrebbero accantonarle in un’altra colonna dello scibile carcerabile, zingare, altra cosa? Anche quando non denunci “una depressione”, anche quando non sia una tossicomane strappata da poco ai suoi usi, anche quando non sia straniera, come farà la giovane donna a prendersi cura dei cuccioli e di sé?
(Come farebbe un uomo, un padre di trent’anni, anche non straniero, anche non tossicomane, anche non depresso? Come faremmo, uomini, con due nostri figlioletti, a chiedere di gridare meno forte: “Voglio morire!” e “Fatti le urine, fottuto bastardo!”, perché sto cercando di addormentarli? Io non sono migliore né peggiore, credo, di altri, però ho una cicatrice in più: sono andato per anni a camminare, a “passeggiare”, si dice, in un cortile dal quale si sentivano a volte risate altre volte, più spesso, pianti di bambini).
Nessuna autorità, nessun responsabile era tenuto, era tenuta, a temere che la donna infelice commettesse un atto simile: sarebbe stato disumano figurarselo. Anche ad aver fatto il classico, anche ad aver letto la tragedia o almeno aver visto il film. Non si doveva né si poteva immaginare questo per sentire che non era quello il posto, il destino, della madre e dei cuccioli. Tutto questo e molto altro si pensa e si discute, finché si sta dentro il cerchio, il recinto stretto e irto del famoso consorzio civile e della sua scorza annerita. Ma ad uscirne per un momento, ad avere ancora un consunto ricordo dell’essere umani, della tragedia che è la vita, allora non c’è da discutere o da distinguere: c’è solo da gridare all’infamia e alla pazzia, c’è solo da sentire quale colpa deliberata, stagionata, incistata sta addosso a una società simile, che prende distrattamente in un giorno qualsiasi di agosto quella madre e quei bambini e li butta via, coloro che lo fanno per mestiere e coloro in nome dei quali viene fatto. Il mondo. Fatti le urine, fottuto bastardo!