“A noi donne basta uno sguardo”. Al nostro orizzonte civile e a certi politici, no
Il romanzo di Christine von Borries, la magistrata di turno quando è morto Arafette Arfaoui
Cominciamo da un libro giallo, “A noi donne basta uno sguardo”. L’ho letto ieri, per tre ragioni. La prima, che Andrea Camilleri aveva salutato benevolmente l’esordio dell’autrice. La seconda, che l’indagine è condotta da quattro amiche, una Valeria, Sostituto Procuratore, una Erika, poliziotta, una Giulia giornalista e una Monica commercialista. Io ho letto tutto Manzini e là con Rocco Schiavone ci sono quattro amici maschi. (Sono quattro amici anche al BarLume di Malvaldi). Bene, la terza ragione è quella decisiva, ma farò come i giallisti e la dirò alla fine o quasi. Il libro è ambientato a Firenze e racconta un’abominevole impresa di sequestro di donne africane da mettere sulla strada e da derubare dei loro nati, per venderli ad adottatori italiani o per venderne gli organi.
Il traffico si svolge attraverso case di accoglienza finanziate a fin di bene dal Comune, e coinvolge delinquenti a loro volta africani, obbedienti a un mafioso calabrese (dal cognome casualmente risonante), e con complicità italiane di un dirigente municipale, di grossi commercialisti e affaristi, di un ispettore di polizia. Non riferirò la trama e invece estrarrò qualche dettaglio sull’orizzonte civile e sentimentale delle protagoniste. La maternità e i luoghi e i rumori del parto e l’odore dei neonati hanno un posto speciale nel libro, e del resto nella vita, che da lì comincia.
Erika, per esempio, la poliziotta, mette al mondo il suo bambino accanto a una giovanissima partoriente africana che si dice siriana. Erika, poliziotta esperta, scommetterebbe che sia in realtà ghanese, e pensa che “anche lei, nella stessa situazione, avrebbe fatto di tutto per non essere espulsa e garantire a suo figlio la speranza di una vita migliore”. Valeria, per esempio, la magistrata, “si riteneva una persona tollerante, ma non riusciva a mostrarsi condiscendente nei confronti dei pubblici funzionari che non facevano il loro dovere per denaro”. Anche le amiche meno addestrate a una vita pericolosa, come la cronista Giulia, finiranno per dar prova di un coraggio fisico formidabile, e d’altra parte le ragazze africane sono orribilmente oppresse e umiliate, ma la ribellione intrepida di una di loro, Samirah, sarà determinante per sgominare la rete criminale.
Dev’esserci un giacimento formidabile nella memoria delle poliziotte, delle magistrate, delle assistenti sociali e delle volontarie che ascoltano le donne schiavizzate, violate, torturate e tormentate. In un episodio Samirah è costretta a darsi al padrone truce che le ha tolto la figlia e che le assassina le amiche: e tuttavia nella violenza il suo corpo cede a sensazioni che ripugnano alla sua mente. Un autore maschio a quel punto avrebbe dovuto esitare. Non si dicono femministe le amiche, né il contrario, sono donne, piuttosto ingarbugliate e tradite nei loro amori. Non che ne facciano a meno, al contrario (per ora, perché il libro vuole inaugurare una serie) ma forse non li mettono più al primo posto: dopo i figli, propri e altrui, dopo il lavoro, dopo la loro amicizia.
Romanzi e coincidenze professionali
Aveva pubblicato altri due libri con una stessa protagonista: una vicedirettrice dell’Ufficio Decimo del Sisde, che si chiamava Irene e indagava sull’intreccio fra politici, banchieri e criminalità organizzata. (Coincidenze di nomi: nel suo originale “poliziesco” Enrico Deaglio ha chiamato così la zia del protagonista, già funzionaria dei servizi al Viminale, “Zia Irene e l’anarchico Tresca”, Sellerio, naturalmente). Ho cercato questo libro, il terzo e più recente, uscito nel 2018 per Giunti, perché il movente decisivo del mio interesse non era letterario. Il fatto è che l’autrice si chiama Christine von Borries, è nata nel 1965 a Barcellona da madre italiana e padre tedesco, è effettivamente sostituto procuratore a Firenze. Ed era di turno giovedì sera, quando a Empoli è morto a 31 anni Arafette (scrivo così il suo nome perché lui lo scriveva così sul suo facebook) Arfaoui. Di turno, dunque il gioco del caso, e un magistrato vale l’altro, o dovrebbe. Però.
C’è, come tante altre volte, la polizia da una parte, e un disgraziato dall’altra (tunisino di origine, italiano, se non ho frainteso, per matrimonio e soggiorno regolare), e la cosa è finita con la morte del disgraziato, col dettaglio increscioso che era ammanettato e legato alle caviglie con una corda. Chissà la percezione di sicurezza di Arfaoui, quel pomeriggio e nel resto della vita. All’interporto di Livorno, dove aveva lavorato con la Cooperativa Porto Mediceo, dicono di lui che fosse un bravo lavoratore, con un carattere che “non le mandava a dire”. Dunque mi sono interrogato sulla magistrata di turno. Lavorò con Gabriele Chelazzi ed è devota alla sua memoria. Chelazzi è stato un magistrato prestigioso, autore dell’indagine sulle stragi attuate e tentate da Cosa Nostra nel 1993-’94, morto improvvisamente nel 2003 quando aveva solo 59 anni. Borries è stata in servizio ad Alba, Prato e per un periodo, su sua richiesta, a Palermo. Forse nella sua attività di scrittrice avrei trovato qualche indizio, benché indiretto e magari dissimulato fra le righe, per la domanda: che tipo è questa magistrata sulla quale è ricaduta una simile responsabilità?
Manette, cappuccini, indagini
Che domanda insinuante, direte, e suggestiva. Ma no, piantatela. Arafette Arfaoui era ancora caldo, come si dice nei romanzacci, e Salvini aveva già assolto i poliziotti e condannato lui. Qualcuno penserà che la mia attenzione irritata a storie simili si sia dimenticata di altre storie, quelle di quasi mezzo secolo fa. Al contrario. So immaginare con che parole uno come Salvini avrebbe salutato la cattura della belva Valpreda. Come avrebbe commentato il volo di Pino Pinelli che, schiacciato dalle prove, si era buttato. E vecchio come sono ho anche qualche ricordo delle cose recenti, per esempio le parole con cui uno come Salvini ha commentato Stefano Cucchi e i carabinieri di Cucchi.
La signora von Borries è titolare di un’indagine sul comportamento – del tutto impregiudicato, finora, salva quella spina infida delle mani e i piedi legati a uno forse ubriaco, forse escandescente, che spediva ai suoi in Tunisia 100 euro di cui 20 forse falsi – di agenti di polizia dei quali il vicepresidente del governo e ministro degli interni ha dichiarato: “Dovevano offrirgli cappuccino e brioche?” Ci vuole coraggio, direbbe qualcuno. Ci vuole una normale, regolamentare indipendenza. È strano il linguaggio: diciamo “ci vuole un bel coraggio” anche per significare un’impudenza, una gran faccia tosta. Una svergognatezza. Vedremo. (Un sindacalista della polizia protestando contro quella che gli pare una denigrazione pregiudiziale ha scritto, accidenti, “finiremmo per avere le mani legate”). Oggi c’era l’autopsia, cui ha presenzia un perito della famiglia, per l’esito bisognerà aspettare. Se gli agenti intervenuti a Empoli hanno fatto il loro dovere saremo felici per loro e per noi. Proporremmo comunque agli uffici competenti un censimento dei messaggi sui social e nei commenti ai siti e sugli eventuali muri: “1 di meno”. Così, per facilitare la prossima relazione del Censis.