Milioni di morti nello sterminio che faticosamente ridiventano persone
Il giorno della Memoria: la storia di Enrica Calabresi
In fondo al Giorno della memoria si prova oltretutto un disagio per la modestia della propria vita, anche quando abbia avuto qualche tratto romanzesco: è una lezione utile di tanti racconti dei perseguitati. Il lungo tempo trascorso, che pretende una ributtante prescrizione e lascia che si renda omaggio nel Senato italiano ai Protocolli, ha ottenuto almeno di divincolare le storie singolari dal mucchio anonimo dei morti che era stato a lungo, dopo la guerra, la cifra dello sterminio. Erano milioni, e faticosamente, lentamente, sono diventati persone, nomi, percorsi, visi. Ce n’è voluto, perché la smisuratezza faceva ostacolo e perché la natura stessa dello sterminio era di annientare individualità e diversità e ridurre a un totale di nuda cenere. Segnalo una di queste storie, così toccante da far chiedere come abbia potuto tanto tenacemente restare sepolta sotto distrazione e rimozione. E’ la storia di una donna, Enrica Calabresi. Piuttosto, la storia di una donna e del suo uomo, Giovanni Battista De Gasperi.
Domenica, nel Giorno della Memoria, al Teatro della Compagnia di Firenze è stato presentato per la prima volta a un pubblico straordinariamente vasto e commosso un film loro dedicato: “Una donna. Poco più di un nome”. Enrica Calabresi è un’ebrea di Ferrara, è nata nel 1891 da una famiglia colta e attenta al valore delle sue donne. Viene a studiare a Firenze scienze naturali e si distingue presto nel campo che si è scelta, la zoologia e specialmente l’entomologia.
A Firenze viene anche un giovane prodigioso di Udine, Giovanni Battista De Gasperi. E’ nato nel 1892, naturalista anche lui, geografo e speleologo, alpinista e botanico e geologo. I due si innamorano e diventano promessi. Lui a vent’anni partecipa come naturalista a un’importante spedizione nella Terra del Fuoco. Lei diventa aiuto alla Specola e firma lavori originali, che la porteranno presto a guadagnare la libera docenza. Nel 1915 lui parte per il fronte, tenente degli alpini. Un suo fratello è morto scalando il Civetta, un altro muore in guerra già nel 1915, nel maggio del 1916 muore anche lui sulla prima linea. Ha 24 anni, ha al suo attivo ben 137 pubblicazioni scientifiche. Enrica vive un lutto cui resterà votata per tutta la vita e che sembra chiuderla in un silenzio inviolabile sui propri sentimenti. Lascia l’insegnamento per andare da crocerossina in zona di guerra. Tornata, riprende e perde il posto alla Specola, che va a un aspirante fascistissimo.
Nel 1936 ottiene un raro incarico di docente all’Università di Pisa, fino a che le leggi razziste la cacciano dall’università, brutalmente, come tanti altri, studiosi insigni o studenti ignoti. Enrica non lascia Firenze, dove può continuare a insegnare nella scuola privata della comunità ebraica agli alunni che la scuola pubblica ha espulso. Nel 1943 viene arrestata, da fascisti fiorentini, italiani, perché è ebrea. Da tempo porta con sé una fialetta di veleno, fosfuro di zinco, veleno da topi, orribilmente doloroso, quello che ha potuto procurarsi. Nella notte che precede la deportazione ad Auschwitz si toglie la vita. (Succederà a qualche padre ebreo di rimpiangere che la propria figlia non abbia fatto lo stesso). Pisa ha da poco convocato, per gli 80 anni dalla firma delle leggi razziste a San Rossore, un’adunanza di tutti i rettori italiani che per la prima volta ha chiesto scusa per l’infamia di cui l’intero mondo accademico – con eccezioni fulgide quanto minime – si era reso complice, entusiasta o vile. (Si sono anche chiesti, i rettori, come si comporterebbero se la circostanza si ripresentasse).
Pisa ha finalmente dedicato a Enrica Calabresi una strada e le ha intitolato l’aula di entomologia agraria, la disciplina che aveva istituito e diretto. A riscattarne la memoria sono state donne scienziate sollecitate dalla riscoperta dei suoi lavori, Marta Poggesi, Alessandra Sforzi alla Specola fiorentina, Elisabetta Rossi alla Sapienza pisana; sulla loro scorta un giornalista e scrittore fiorentino, Paolo Ciampi, ne ha pubblicato un’appassionata biografia, “Un nome”, per la Giuntina di Daniel Vogelmann, rintracciando i suoi famigliari, eredi fedeli dei suoi affetti e delle sue carte, comprese le lettere giovanili con De Gasperi, custodite dalla nipote che ha il suo nome.
In anni recenti a Roma una mostra fotografica e poi uno spettacolo teatrale avevano pubblicato il diario di guerra di De Gasperi e messo in scena il legame fra i due giovani. Finalmente Ornella Grassi, col sostegno della Regione Toscana, ha realizzato il lungo sogno di raccontare la vita e la morte di Enrica in un film che combina ricostruzioni, filmati di repertorio, brani di film di contesto, racconti di testimoni, come il suo formidabile nipote prediletto, Francesco, e studiosi, allievi e allieve della professoressa Enrica – furono suoi scolari anche Margherita Hack, Marco Maestro, Nedo Fiano – studiosi di De Gasperi, come lo speleologo principe udinese, Umberto Sello. Ornella Grassi non ha rinunciato all’immedesimazione in Enrica. Era diversamente successo anche al biografo, Ciampi, che pure è un uomo. Ci sono due fotografie fatali. Quella di Enrica giovane, con un gran cappello, il collare alto e un elegante abito da passeggio, e quella del medaglione che porterà sempre al collo, con la fotografia del ragazzo Giovanni Battista. Enrica Calabresi ispira insieme un desiderio struggente, adolescente, di proteggerla, e una soggezione ammirata al suo coraggio e alla sua dignità; un’ammirazione per l’intelligenza consapevole e sicura e una tenerezza per la solitudine deliberata. Deliberata forse per tenere al riparo i suoi cari e chiunque altri dalla minaccia che le pesava addosso, forse per fedeltà alla vita come avrebbe potuto essere, come le era apparsa nelle passeggiate sui colli fiorentini in una breve stagione.