Foibe, genocidio, pulizia etnica. Quando uno slittamento linguistico produce effetti devastanti
Il caso degli studiosi accusati di riduzionismo per avere dimostrato che le foibe non sono state una pulizia etnica
A Trieste un consigliere regionale viene sospeso per 15 mesi in qualità di indagato per “spese pazze”. Questo pazzerellone alla vigilia dell’uscita promuove una mozione contro il “riduzionismo” sulle foibe il cui fine solido è di togliere ogni sovvenzione all’Istituto per la storia della Resistenza del Friuli-Venezia Giulia, e il cui bersaglio polemico è uno smilzo “Vademecum per il Giorno del Ricordo” redatto da Gloria Nemec, Raoul Pupo, Anna Vinci e Franco Cecotti. Temerario insinuare che i denunciatori del Vademecum l’abbiano letto e che abbiano un’idea sia pur riduzionista della mole, qualità e varietà di studi condotti sopra il confine orientale, invidiabili da qualsiasi territorio italiano, e integrati da una produzione altrettanto ricca di parte slovena e anche croata, compreso il lavoro di commissioni miste. Raoul Pupo, che si è visto così inopinatamente promosso, coi suoi colleghi, a “riduzionista” – dev’essere una fusione di negazionista e minimizzatore – ha pubblicato da poco un libro su “Fiume, città di passione” (Laterza), bello e vivace, che conosce un suo successo e si è forse incontrato con una curiosità “fiumana” rieccitata dal Mussolini di Scurati.
Il libro è a sua volta un vademecum d’attualità sul “diciannovismo”, prima che il 2019 lo eclissi se non nel dramma nel ridicolo. (Obietterei solo all’indulgenza di Pupo per il paragone fra fiumanesimo e Sessantotto, a suon di imprese aviatorie, nudismi con l’aquila in spalla, torrenti di cocaina e sopra tutto il D’Annunzio di Fiume profeta di se stesso, e di un “riduzionismo” del ’68 a sesso-droga-e-rock’n roll – troppa grazia). Alla presentazione del “Fiume” di Pupo a Gorizia, c’era un vasto pubblico dall’età media, me compreso, fra alta e altissima. A un certo punto è comparso nella sala un dimesso ragazzo africano, congolese forse, ed è sembrato risarcire anagraficamente e geograficamente la parzialità del consesso, tanto più che manifestava un’attenzione mossa e quasi apprensiva: ho appurato alla fine che aspettava di pulire e riordinare la sala, ma era comunque un inizio. Pupo, spiritoso anche da oratore, è stato interpellato sulla polemica di giornata, quel capitoletto delle spese pazze.
Ha rispiegato come un punto cruciale delle tensioni rinfocolate sulle foibe stia nella definizione di “pulizia etnica”, che non ci fu in realtà, e le vittime delle stragi rivali furono distribuite secondo altri criteri, senza che questa constatazione attenui in alcuna misura ferocia e sofferenze. Penso che le vittime, che ebbero tutte le ragioni per sentirsi odiate e perseguitate in quanto italiane, abbiano spesso la sensazione di essere diminuite e offese quando alla violenza patita non venga dato il nome più infamante. Così per il genocidio, il cui riconoscimento sancito o mancato provoca esacerbazioni irrimediabili, come fra regime turco e armeno, la cui vicissitudine fu il prototipo del genocidio moderno e l’occasione della sua stessa denominazione.
In Ruanda il mancato (e ammesso solo a cose fatte) riconoscimento del genocidio comportò l’elusione dell’obbligo di intervento internazionale. Sulla Bosnia l’evocazione appropriata di genocidio fu accolta dal tribunale internazionale per Srebrenica. Ma è in Bosnia, mi pare, che avvenne uno slittamento linguistico apparentemente banale ma pieno di effetti. Invalse, durante la guerra post-jugoslava, la definizione di “pulizia etnica”, spogliata qui di ogni fondamento, ammesso che ne avesse altrove. I musulmani bosniaci, slavi come i serbi o i croati, con la deviazione di una conversione religiosa, furono inventati come etnia per essere meglio perseguitati dai nemici e più efficacemente difesi dagli amici. Pulizia etnica è una formula che non pretende di diventare mero sinonimo di genocidio e insieme vuole conservare un connotato razzista. Un crimine contro l’umanità che non attinga al rango di pulizia etnica suscita nelle vittime una sensazione di diminuzione, che non è, trattandosi invece della adeguata definizione di un avvenimento. La discussione sulle foibe o sull’esodo rispetto alla “pulizia etnica” non sottintende alcuna svalutazione o riduzione della tragedia che le vittime patirono e dei suoi responsabili.
C’è un punto: la documentazione sul numero delle vittime (di ciascuna parte e di ciascun tempo) non è affatto superflua, benché l’implicazione morale non vi si riduca per intero – qui si può dire. L’identificazione delle vittime le sottrae all’indifferenza delle cifre arrotondate. A Basovizza quest’anno si è perpetrata la frase di Salvini che non sapeva di che cosa parlasse ma sapeva perché: “I bimbi morti nelle foibe e i bimbi di Auschwitz sono uguali”. L’imbocco del pozzo di Basovizza fu cementato dopo inadeguati tentativi di ricognizione, e sui corpi che vi sono contenuti ci sono opinioni disparate e accanite. La tecnologia attuale consente di compiere la ricognizione che non varrebbe tanto a dirimere una controversia quanto a rendere intera una memoria. È anche qui, dopotutto, dopo tutto, la famiglia d’erbe e d’animali: ossa che in terra e in mar semina morte.