Una foto di archivio di Adriano Sofri (foto LaPresse)

Non si è mai all'altezza della propria reputazione né della propria imputazione

Adriano Sofri

Risposte e precisazioni personali a Mughini e Bellocchio

Ieri trovo due interviste a persone che parlano anche di me. Uno è Giampiero Mughini, sul Corriere. Lo ha fatto spesso. C’è un’evoluzione. Aveva detto più volte di ritenere che io, senza essere mandante di niente, sapessi però chi erano gli autori dell’omicidio di Luigi Calabresi. Sbagliava, ma dev’essere stata dura per lui. A me non sarebbe stato facile rassegnarmi all’idea che qualcuno stesse in galera perché “sapeva”. Ora Mughini dice al memorialista Aldo Cazzullo che, dopo la fine di un famoso comizio pisano in memoria del martoriato ragazzo Franco Serantini, aveva smesso di piovere e dunque lui pensa che sia stato possibile che io avessi col mio accusatore, Leonardo Marino, il breve colloquio da lui evocato, benché non possa sapere che cosa effettivamente ci fossimo detti. Un testimone a carico.

 

Chiesi a Mughini di testimoniare per me (31 anni fa) poiché aveva ricordato in quel 1972 (47 anni fa) di essere stato a Pisa, di essersi spostato da un comizio del Pci al nostro, e di aver preso quella pioggia forte. Ora non solo il suo ricordo è cambiato, ma è cambiata anche la pioggia. Io non avevo mai preteso di non poter avere un colloquio con qualcuno (e figurarsi per una bazzecola come un mandato a uccidere) perché pioveva: l’avrei potuto avere anche sotto una tormenta sul Cervino. Avevo ricordato la “pioggia battente” di cui tutti i giornali del giorno dopo e le fotografie del giorno stesso testimoniavano, solo perché Marino aveva detto che non ricordava che avesse piovuto. C’è di peggio: Mughini dice che “Adriano Sofri riconoscerà trent’anni dopo che il commissario non c’era nella stanza al quarto piano della questura di Milano da cui l’anarchico Giuseppe Pinelli cadde innocente nella fatale notte del 15 dicembre 1969”. Nient’affatto. Non ho mai “riconosciuto” questo, ho scritto, molto chiaramente, chiudendo un mio libro su Pinelli, che “non so” se Calabresi fosse o no nella sua stanza. Oggi, dopo che è emersa una notizia enorme come quella della presenza nella Questura di Milano di Silvano Russomanno, il vice capo degli Affari Riservati, e della sua squadra, il mio “non so” è ancora più diffidente. Se ne riparlerà, allo scoccare dei cinquant’anni.

 

La seconda intervista del giorno è una “lunghissima” conversazione di Giammarco Aimi con Piergiorgio Bellocchio, per Linkiesta. L’ho letta con gran piacere, come tutte le cose di Bellocchio e forse di più, ora che si dice vecchio e spiantato. Mi descrive, in una parte dell’intervista, pregi e difetti, come si dice, e mi sono divertito per la curiosità che si prova a capire come ci vedono gli altri, specialmente un altro proverbialmente non ruffiano come Bellocchio. Non dirò di riconoscermi per intero nella sua descrizione: Io è Un altro. Quanto a me, non saprei riconoscere a lui un solo difetto, non perché io sia ruffiano, ma perché lo trovo una persona senz’altro ammirevole, e gli voglio bene. Devo correggere due (lusinghiere?) sue opinioni. La prima, che io, sospinto dalla notorietà della galera, abbia “guadagnato un po’ di soldi”: lo rassicuro, sono povero almeno quanto lui. La seconda, che al tempo in cui facevo il leader e tante ragazze “ronzavano attorno”, me le sia “fatte tutte”. No: fui mediocre. Non si è mai all’altezza della propria reputazione, né della propria imputazione.