Una manifestazione di Casapound a Roma (foto LaPresse)

Fascismi

Adriano Sofri

L’antifascismo è stato troppo sveltamente annesso alla noia del politicamente corretto

Forse si può ripetere qualche ovvietà trascurata sul fascismo. Per esempio: “fascismo” in Italia (non solo) ha almeno due accezioni principali e concorrenti. E’ il fenomeno storico succeduto alla brutalità della Grande Guerra e durato come una dittatura violenta, razzista e vocata al totalitarismo per più di vent’anni. Ed è per i suoi avversari una categoria antropologica e fortemente morale, il fascismo universale, la designazione di un modo di essere umano e specialmente maschile. Così Pasolini, per eccellenza, ma l’esempio più penetrante e drammatico è, mi pare, nel verso di Sylvia Plath: “Ogni donna ama un fascista”. (Certo che non è vero. Certo che è vero. Vuol dire che in ogni uomo sonnecchia, almeno, un fascista). Lo scambio fra le due accezioni non può che provocare qualche confusione. Ma si può fare attenzione.

 

 

Un’altra ovvietà sta nell’estensione illimitata dell’antitesi fascismo-antifascismo. Quella antitesi era essenziale durante il dominio del regime fascista. “Tutto il bene, tutto il male”. Ma non esauriva allora, e tantomeno esaurisce dopo, il confronto politico e civile. Viene da qui un’ulteriore confusione. L’espressione “ritorno del fascismo”, ragionevole com’è, induce però a immaginare una versione rinnovata dell’idea per cui la storia è un ciclo di andate e ritorni: c’è il fascismo, poi viene l’antifascismo, poi torna il fascismo, o minaccia di tornare, e gli si rioppone l’antifascismo eccetera. Quello che in realtà arriva non è “il ritorno del fascismo”, quello storico, benché l’esperienza, ancora così bruciante, del fascismo storico, e il riconoscimento della personalità “fascista” forniscano criteri preziosi all’intelligenza di ciò che arriva. Complica le cose, ma bisogna rinunciare all’idea che la storia giri su se stessa e anche all’idea che la storia vada, sia pure con deviazioni, arresti, retrocessioni, verso il progresso. La storia ha un passo di ubriaco, e si può provare a renderne l’ubriachezza meno molesta. Per provarci, essere antifascisti non basta, ma è indispensabile. L’antifascismo è stato troppo sveltamente annesso alla noia del politicamente corretto.

 

Un’evocazione più o meno indebita

Ci sono molti esperti soprattutto preoccupati che si evochi il fascismo per il corso politico prevalente oggi. Lasciamo perdere quelli che lo fanno, poveracci, per viltà o ruffianeria. Consideriamo quelli che pensano francamente che l’evocazione del fascismo faccia dirottare l’opposizione politica e civile. Però bisogna rinunciare alla minimizzazione del fascismo in divisa, “caricaturale”, “folcloristico” eccetera: quel fascismo è un ingrediente complementare, oltre che ributtante, di quello che arriva. Ha una funzione simile a quella della strategia della tensione fra i 60 e i 70. Salvini e CasaPound, o Forza Nuova eccetera, stanno in questo rapporto. Ed è vero che lo stesso Salvini non è Mussolini, come ha detto lapidariamente Andrea Camilleri: tutt’al più un Federale. Anche Mussolini non era Mussolini, fino a pochi giorni prima. La Lega di Salvini non è, come sperano alcuni specialisti più sensibili alle differenze che alle somiglianze, un’incarnazione aggiornata dell’antiantifascismo, la infastidita terza via del qualunquismo italiano.

 

L’evocazione, più o meno indebita accademicamente, del fascismo, forse riuscirà a indurre un numero maggiore di giovani a chiedersi di che cosa si trattasse. Succede però che una minoranza, ma consistente, di giovani, studi a suo modo, devota a suoi maestri e idoli, il fascismo storico, contraffacendone la verità ma agguerrendosi nella sua vulgata e nei suoi gerghi. Il movimento operaio – non solo lui – era una grandiosa impresa educativa e autoeducativa. Nel contesto della sua ispirazione e sostegno, l’autodidattismo di chi era escluso dall’istruzione ufficiale era una conversione personale e collettiva epica. Oggi l’autodidattismo si immagina autosufficiente, vanta il proprio diritto a un’ignoranza cellulare, concepisce addirittura una propria superiorità morale. La sinistra democratica avrebbe qui il suo compito e la sua occasione migliore: l’educazione e l’autoeducazione. Non che la memoria, l’intelligenza della realtà non è mai stata così divisa, e però ha bisogno di essere divisa, divisissima. Da questo punto di vista, la scissione élite-gente è inutile, ed è anzi la maschera attraverso cui passa una lacerazione sociale verticale, non orizzontale: fra chi vuole “il napalm” e chi la solidarietà – e ammucchiare “la gente” toglie ai singoli nella gente ogni residuo di responsabilità personale. Domani – o dopodopodomani… – a domanda non risponderanno di aver obbedito agli ordini, non ancora, ma risponderanno di aver creduto in Salvini o chi per lui. “Come facevano tutti”, o quasi. Si saranno lasciati trascinare, come allo stadio. La folla assiepata e filtrata, uno alla volta, a farsi il selfie: a questo è ridotta la responsabilità individuale, al selfie a due, prima di tornare a casa e portare una carezza di Salvini ai bambini.

 

La degradazione economica ha questo effetto tragicomico, di far dimenticare agli svaligiati il primato della condizione materiale e di trasformarli in idealisti, in fanatici esaltati pronti a votarsi a una causa – e a un Uomo. Quale “classe” sta dietro a Salvini Forse la differenza più importante è questa: che noi non veniamo dopo una guerra, veniamo prima.

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