Ci sono tanta carne e tante ossa nel volgo disperso di Adriano Prosperi
Un grande libro, di un grande storico, dedicato ai “contadini d’Italia nell’Ottocento”
Diavolo di un Adriano Prosperi! Esce un libro Einaudi, 324 pp., Un volgo disperso, dedicato ai “contadini d’Italia nell’Ottocento”. Una sorpresa. Però fino a un certo punto. In una delle preziose interviste che da anni Antonio Gnoli raccoglie per Repubblica, Prosperi diceva: “Prenda me. Vengo dal mondo contadino. Mio nonno mezzadro. Mio padre piccolissimo proprietario. Mai avrei immaginato di farcela. La vita, però, può farti dei regali incredibili. Concorsi a una borsa alla Normale di Pisa. Fino ad allora, i miei ideali sociali erano radicati nella piccola provincia: il maestro o, se proprio andava bene, il medico condotto in qualche paesino”. E di tracce affini è disseminata la sua vastissima produzione, fino alle pagine amare sulla “guerra dei contadini” del suo recente Lutero. Ora Prosperi muove dalla constatazione che anche i migliori studi sulla storia della campagna e il paesaggio agrario italiano sono piuttosto spopolati dei contadini in carne e ossa.
Nella condizione dei contadini, “la maggioranza assoluta della società preindustriale” – e ancora delle trincee della Grande guerra – sta la varietà della natura e della storia che segna l’Italia e i suoi contrasti, sopra tutti quello nord-sud e città-campagne, e insieme un’affinità di fondo, esemplata sulla monotonia tragica del menu di polenta di granturco. Alimentazione, aria, acqua, igiene, sono i temi conduttori. “Carta igienica”: stava in un titolo del 1863 di Cesare Lombroso, singolare anticipazione, in apparenza, di una denominazione che comparve effettivamente, nei novissimi “sanitari” appartati solo a metà Novecento, e nei vocabolari solo dal 1965! Era, la “carta igienica” di Lombroso, una mappa dello stato sanitario della popolazione italiana, “una carta dell’igiene in Italia, insomma”. L’Ottocento, scrive Prosperi, fu il secolo della medicina “come una provincia dell’igiene”. Sono soprattutto i medici “condotti” i testimoni della condizione dei contadini, e gli scopritori della madre di tutte le malattie: la miseria. Qualcuno immaginò una collaborazione con l’altra categoria intellettuale “di fiducia” delle classi popolari, i parroci, da istruire nella medicina “per utilità spirituale e temporale dei loro popolani”. Un’inversione del costume morale per cui il medico doveva prima accertare se il malato si fosse regolarmente confessato. Le descrizioni del sudiciume, della promiscuità micidiale fra umani e altri animali – gli inverni riparati nel tepore malsano delle stalle – della fatica che devasta l’infanzia. E della meticolosa, “naturale”, spietatezza dei padroni. In Lombardia, “l’uva essendo per metà de’ padroni e per metà de’ coloni, quando comincia a maturare, è vietato al colono il mangiarne. Solerte guardia veglia notte e giorno alla custodia, e perché non se la intenda coi contadini si costuma chiamarla da regione lontana” (così il medico Nardi). Pagine istruttive a capacitarsi del modo in cui vengono trattati i moderni coloni delle Rosarno d’oggi, e come si riesca a giustificarsene. Lentamente, mentre si cominciava a descrivere attraverso l’auge della statistica le condizioni di “bifolchi, braccianti, giornalieri, cavallanti…”, si arrivò a riconoscere loro un nome (soprannomi ne avevano avuti, caricaturali), sia pure da morti. Il giovane medico condotto Ercole Ferrario strappò a parenti riluttanti l’autorizzazione all’autopsia per “Giuseppe Bertoni, da Fern, 54 anni, morto il 23 ottobre 1838, e Vincenzo Macchi di Samarate, 34, morto il 10 ottobre 1839”: di pleuriti fulminanti per gli sbalzi fra la fatica “da sole a sole” e le notti trascorse all’addiaccio seminudi. A loro volta i parroci sapevano: le neonate soppresse per ridurre le bocche in tempi di carestia, le “astuzie del villano” per strappare qualcosa alla rapina delle sue fatiche. Spesso erano figli di contadini, il solo modo di sfuggire all’origine. Ve ne furono che accolsero l’ispirazione mazziniana, non solo i “martiri di Belfiore”. I più predicavano comunque d’esser amorosi verso i padroni, star lontano dalla città, luogo di perdizione sessuale e di depravazione femminile. Deprecavano la bestemmia e il cedimento al lusso: “il tabacco, la pipa, l’ombrello, il fazzoletto da collo”. La pellagra, debellata solo a mezzo del Novecento, fu la malattia esemplare, fra quanti ne indicavano, a ragione, la causa nel mais guasto, e quanti nella povertà, ancora più a ragione, e nella fame, “che colpiva specialmente le donne, perché rinunciavano alla parte migliore del poco cibo per i loro uomini”. Preti timorati e scienziati positivisti, come il solito Lombroso, furono spesso d’accordo nel deprecare l’alfabetizzazione e la scuola che insinuava brutte idee. Verso la fine del secolo, la compassione faticosamente emersa cedeva all’allarme per le classi pericolose: pericolosissimi i contadini, dal cervello atavicamente ristretto, per la scienza razzisticamente progressista. E “nulla è più pericoloso di una grande idea in un piccolo cervello”.
L’eroe del libro è Agostino Bertani, medico, combattente delle Cinque Giornate, della Repubblica Romana, dei Mille, mazziniano e garibaldino radicale, ispiratore e coautore dopo l’Unità dell’inchiesta Jacini: “figura di primo piano fra quanti ebbero a che fare con Cavour e fra i più vicini per convinzione e cultura a Cattaneo delle cui opere doveva farsi editore. Fu proprio Bertani colui che ai problemi delle miserabili condizioni di vita delle plebi rurali doveva dedicare il suo impegno”. Carlo Cattaneo aveva evocato un Quinto Stato: “La maggioranza degli agricoltori giace ancora in sì negletta e barbara condizione, che fra poco si dovrà per essi introdurre l’idea d’un quinto stato nella società”.
Gran libro. Ho scritto molto, ne ho detto poco. Non ho detto abbastanza come sia una specie di autobiografia, di un grande storico che dei propri inizi disse: “Molta timidezza ma anche determinazione. L’ostinata determinazione contadina”.