La campana di Istanbul suona anche per Trump
Erdogan ha perso il potere in tutte le grandi città. Il risultato elettorale in Turchia inverte una tendenza internazionale
Una ironia sottile si è insinuata dentro il commento di Erdogan alla sconfitta di Istanbul: “La volontà popolare si è manifestata ancora una volta”. Ancora una volta: la seconda. A marzo, l’Akp di Erdogan e il suo candidato prestigioso, Binali Yildirim, già primo ministro, avevano perduto Istanbul per una differenza di 13.700 voti. Il vincitore, uomo nuovo del maggior partito di opposizione, il Partito repubblicano del popolo, Chp, Ekrem Imamoglu, fu allora sindaco di Istanbul per 18 giorni. Finché i ricorsi escogitati da Erdogan e accolti dal comitato elettorale a lui pieghevole ottennero l’annullamento del voto e la sua ripetizione.
Domenica 23 giugno: stagione già di vacanze per i cittadini turchi, i quali le hanno interrotte per rientrare nella capitale e votare, con una partecipazione dell’85 per cento, superiore a quella stessa di marzo. E alla seconda volta la differenza fra Imamoglu e Yildirim è stata di 800 mila voti: da una sconfitta di misura a una disfatta. A spiegare la quale sta anche l’indignazione di elettori, compresi non pochi dell’Akp, derubati della propria libera scelta. L’Akp, il Partito della giustizia e dello sviluppo, è stato battuto nettamente nello stesso quartiere di residenza di Erdogan. Quest’ultimo ha ancora cinque anni di presidenza davanti, salvo che le crepe nel suo partito e le tentazioni di scissioni, o la sua stessa tentazione di prendersi una azzardata rivincita, provochino un’elezione politica anticipata. Il colpo è stato comunque fortissimo, e magnifico, per il contegno e il linguaggio tenuti da Imamoglu, laico, aperto, inclusivo, pronto a mettere insieme parole come diritti, partecipazione, amore. “Andrà tutto bene”, il suo slogan. È andato benissimo, hanno cantato nelle strade.
La Turchia, grande paese, era diventata il paradigma di un fenomeno universale come la differenza elettorale fra città e campagna: Istanbul, Ankara, Adana, Smirne, andate tutte all’opposizione. E che città, Istanbul. Ma il potere personale di Erdogan era cresciuto in realtà come la combinazione fra la popolarità nelle zone rurali e più tradizionalmente islamiche e il controllo della metropoli capitale. A Istanbul Erdogan era cresciuto, ne era diventato sindaco esattamente 25 anni fa, ne aveva fatto la vetrina del suo miracolo economico. Quella combinazione si è spezzata, di poco tre mesi fa, clamorosamente ora. Fiutando il disastro Erdogan aveva forzato la sua campagna di promesse ed elargizioni fino ai passi falsi ultimi, il più screanzato nei confronti dei curdi. Nemici giurati e cancellati, con i loro capi, donne e uomini, regolarmente eletti in parlamento e nelle città del sudest, in carcere senza processo, come l’intrepido leader del Hdp, Selahattin Demirtas.
Erdogan e i suoi hanno cercato di portare la loro campagna in casa curda, a Diyarbakir, e sono arrivati a giocare la carta di “Apo” Ocalan: il vecchio leggendario capo recluso da vent’anni all’ergastolo e in isolamento aveva scritto una lettera invitando i curdi a tenersi indipendenti dalla contesa fra Akp e Chp. Invito ambiguo, o almeno equivocabile, col quale però i dirigenti del Hdp, il Partito democratico dei popoli, hanno tagliato corto confermando il loro appoggio alla candidatura di Imamoglu. E lasciando Erdogan alle prese con i suoi alleati fascisti, scandalizzati dalle “concessioni” ai curdi. Erdogan ha spinto il paese in un continuo rincaro avventurista e dittatoriale, riempiendo le prigioni, perseguitando le file dei militari, dei magistrati, dell’informazione, dell’insegnamento. Ha giocato d’azzardo fuori dai confini, con l’Isis prima, con la Russia e con Assad poi, finendo fra l’uscio dei missili 400S di Putin e il muro degli F35 americani. Si è cacciato in una svalutazione della lira vicina al 40 per cento, un aumento dei prezzi dei generi di prima necessità e industriali pesantissimo, una disoccupazione crescente. Può puntare ad avventure oltre frontiera ancora più arrischiate. Imamoglu dovrà intanto saper governare Istanbul, i suoi milioni di persone, il suo 31 per cento dell’economia nazionale. E una maggioranza del consiglio municipale ancora in mano agli avversari dell’Akp. Ma per la prima volta un risultato elettorale di gran scala ha invertito una tendenza internazionale che sembrava avere ancora le vele gonfie. Detto con calma: la campana di Istanbul suona anche per Donald Trump.