Una crisi italiana
Non ci si sente mai così intimamente italiani come quando ci si vergogna tanto di esserlo
Ieri non c’erano i giornali e c’erano le navi e le naumachie verbali e gli sbarcati in gravi condizioni e gli imbarcati che pregavano il loro Dio di mandargli le gravi condizioni, c’era Salvini che proponeva a Di Maio un contratto che lo avrebbe incoronato presidente, altro che Caligola, c’era Di Battista che diceva che bisogna trovare altri interlocutori nella Lega, c’era Trump che vuole comprare la Groenlandia e noi abbiamo governanti che saneranno il deficit vendendo il Colosseo – o è già venduto? – e comunque la fontana di Trevi e gli Scrovegni. Cose così. Qualcuno, in qualche dibattito, si è avventurato a spiegare che il diritto del mare non si limita a dire che bisogna soccorrere chi annega prendendolo a bordo, ma bisogna anche farlo sbarcare da qualche parte. Lo sosteneva seriamente, perché gli altri sostenevano il contrario. Dopotutto, ho i miei privilegi. Ho un forte sentimento internazionalista. Umano, se preferite, sono sinonimi. E non ho niente, ma proprio niente a che fare con gli attori di questa farsa che passa per crisi di governo. Potevo starmene da parte, contento della mia nausea e della mia tristezza. Ma mi sono sentito italiano. Non ci si sente mai così intimamente italiani come quando ci si vergogna tanto di esserlo.