Enrico Berlinguer (foto LaPresse)

Lungimiranza e serietà, approdi perduti da politici novi ed economia

Adriano Sofri

Spunti illuminanti di un dibattito notturno a Radio radicale. A tema il libro di Silva e Ninni “Un miracolo non basta. Alle origini della crisi italiana tra economia e politica”

Gli insonni hanno i loro trucchi, come gli alcolisti e i bulimici, tutte avventure notturne. Giovedì, a notte inoltrata, Radio radicale, dopo un convegno su Luigi Sturzo che viceversa mi aveva eccitato (ex-citato: scetato), era la volta della presentazione di un libro sul miracolo economico di Francesco Silva e Augusto Ninni (ho raccolto i riferimenti esatti in rete all’indomani), “Un miracolo non basta. Alle origini della crisi italiana tra economia e politica”, Donzelli. Partecipanti Raffaele Brancati, Pier Luigi Ciocca, Dino Pesole e Vincenzo Visco, oltre all’autore Silva: tutti maschi, tutti economisti, se non mi fanno dormire questi allora chi.

 

Allora niente, infatti. In compenso, inadeguato come sono al tema trattato, ne ho ricavato qualche impressione sensibile. A partire dalla “lungimiranza” della classe politica e della classe manageriale, essenzialmente pubblica, che governò il miracolo economico. Lungimiranza è la parola sfollata di un tempo come l’attuale, che sta, adulto e maturo, davanti a una siepe e non vede altro che la siepe, e nel pensiero non si finge niente, e dunque la lungimiranza è evocata al passato – il vecchio angelo che procede spingendo avanti la sua tempesta di monnezza con la testa voltata indietro.

 

L’economia e l’intera vita pubblica e privata sono incalzate da un vento di discarica, e povero il governante che immagini un programma appena più che immediato. La scuola, per esempio, è un investimento dai frutti troppo differiti per essere scelto, e così la salute, che esigerebbe la prevenzione ma i frutti della prevenzione non si vedono, o i disastri naturali, per i quali la prevenzione varrebbe un enorme risparmio di denaro, oltre che di dolori e mortificazioni, ma non renderebbe quanto rende l’acqua alla gola quotidiana.

 

La classe dirigente vigente, e specialmente la novissima, è tale da suggerire continuamente il rimpianto per quella di una volta, della “Prima Repubblica”, pronunciata come se fosse una condizione dello spirito piuttosto che una stagione politica. Quella classe politica, compresa la sua autorità sussiegosa e le sue ipocrisie scandalose e le sue digressioni manesche, apparteneva a un’Italia povera ma bella (o viceversa), di treni a tre classi (poi a due, oggi a N), di cappotti gogoliani di De Gasperi in America e di siderurgie grandiose alleate degli artisti trasgressivi. Poteva muoversi lenta e quasi gravemente mentre il Paese, così finalmente chiamato, correva, perché contava, almeno dopo il ’48, su una stabilità invulnerabile. Piccineria e lungimiranza andavano insieme.

 

Il libro di Silva si ferma all’89, come hanno lamentato gli intervenuti: non ne potevo più, ha detto l’autore. L’89, la famosa caduta del Muro, fu una meravigliosa liberazione. Il rotondo anniversario ha indotto qualcuno a parlarne come della “fine di un sogno”: ma il sogno era un incubo, e anche quelli che l’avevano sognato se ne erano svegliati, salva un’ipnosi senza scampo, ormai da qualche decennio, la penultima scadenza (già prorogata) essendo stata ungherese e l’ultima, a babbo morto, praghese. Il sogno vero erano i piedi dei berlinesi che corsero di qua. Ma la fine del loro incubo, di qua largamente ignorato, segnò anche la fine della nostra lungimiranza e più esattamente della serietà della classe politica. Quella serietà della politica di professione e dei suoi uomini (uomini, infatti, con poche preziose eccezioni) era il risvolto della paura imposta dalla Guerra fredda, quando l’atomica incombeva ancora, e dal riconoscimento largamente condiviso, dagli stessi comunisti del Pci, dei confini dentro cui doveva stare la vita pubblica italiana.

 

La caduta del Muro, che liberò il popolo tedesco dell’est dal suo dopoguerra carcerario, liberò definitivamente la classe dirigente italiana e i suoi rappresentati dal peso di quella serietà, cui peraltro erano già venuti a mancare i sostegni ideali e ideologici, e li spinse senza più riserve nella leggerezza e nel ripudio del senso del ridicolo. Bettino Craxi, cresciuto alla scuola di quella serietà all’antica, Pietro Nenni, per intenderci, aveva assicurato la transizione, una ingorda convalescenza, prima che la caduta ne facesse il bersaglio esemplare dell’Italia di Maramaldo, sicché dalla sua ombra dileguata restò in piena luce Berlusconi; cioè, fatte le esasperate proporzioni, l’equivalente della Berlino occidentale per gli orientali della Trabant e dei cetriolini.

 

Alla fine della serietà Enrico Berlinguer, che l’aveva somatizzata, reagì trasferendo lo scenario politico sull’orizzonte sconfinato (fondato, del resto) della fine del mondo dunque dell’austerità religiosa e della diversità antropologica. Da allora politica ed economia – mai così dirottata dalla politica, proprio quando il mondo ne proclamava l’inesorabile primato – semplicemente sono finite, e anche il corteo della loro intendenza, giornalismo e giustizia. Persone serie duravano e durano, qualunque mestiere scrivano sul biglietto da visita, ma fuor d’acqua.

 

Visco ha detto, più o meno: Non avete idea di quale paesaggio irredimibile di rovine abbia potuto lasciare un quinquennio di governo degli altri. A descrivere il paesaggio pubblico corrente i due termini, serietà e lungimiranza, sono quelli decisivi, come ormeggi dai quali ci si è così allontanati da non serbarne più nemmeno memoria e immaginazione. Il filo conduttore dei signori che ascoltavo era il rapporto fra andamento economico e contesto istituzionale, culturale, civile. Conoscevo Pierluigi Ciocca solo da superficiale lettore, ora lo conosco da ascoltatore, buon passo avanti per uno che trapassa efficacemente dall’italiano al romano e ha una calorosa, cordiale risata.

 

Capisco poco di economia, ma mi interessa la retorica degli economisti, e fui ammiratore sperticato di quella di Marcello De Cecco. Ciocca ha detto drasticamente, a dimostrare come l’economia non possa essere interpretata né praticata sottovalutandone il contesto, che gli storici hanno anticipato gli economisti, e ha fatto i nomi pertinenti: e non vuol dire la banalità che gli storici vengono dopo. A segnalare l’influenza del contesto sociale, oltre che politico istituzionale – e qualità di governanti e di manager ecc. – gli oratori hanno ripetutamente evocato “le Brigate Rosse”, come una formula abbreviata a indicare il tumulto sociale fra la fine degli anni ’60 e i ’70. Non ho obiezioni vivaci a questa sineddoche, benché ogni volta mi reinterroghi sulla disattenzione delle rievocazioni al ruolo, economia compresa, di stragi di estrema destra e di servizi pubblici: anche “lo Stato delle stragi” è una sineddoche, ma infrequentata. (Si può obiettare che il bersaglio estremo dello stragismo, il colpo di stato, mancò, e il bersaglio folle delle Br, Aldo Moro, fu raggiunto).

 

Nelle grandi lotte operaie e sociali che precedettero l’autunno caldo, vi culminarono e si protrassero a lungo, c’era una componente che si voleva rivoluzionaria, dunque indifferente alla “compatibilità” fra obiettivi e sistema economico, quando non li sceglieva proprio per la misura di incompatibilità utile a scassare “il sistema”. (C’era una differenza, fra un’irresponsabilità deliberata che metteva al primo posto la trasformazione di coscienza realizzata nella lotta collettiva, e la ricerca di obiettivi e forme di lotta che “oggettivamente” sabotassero il capitale, come si diceva. Ma ora e qui queste differenze non importano se non alle memorie personali). I sindacati, diversamente, e con diversità ingenti al loro interno – minori per esempio fra i metalmeccanici, che realizzarono risultati unitari come la Flm – accettarono essi stessi, a differenza dai partiti di riferimento, una “irresponsabilità” rispetto alle compatibilità economiche, alcuni per convinzione, una fedeltà ai loro rappresentati, tutti per la consapevolezza che altrimenti sarebbero stati scavalcati irreparabilmente. L’economia, anche quella “matematizzante” (cioè i padroni e i governanti) doveva tenerne conto. Direi che la risposta, lenta, fu di intimidire e lasciar esaurire l’offensiva operaia e sociale fino al momento di mortificarla, e rispondere solo in parte con innovazioni tecnologiche risparmiatrici di lavoro e di ribelli. Il famoso tracollo della produttività non fu, dopo di allora, affare di operai e sindacati. L’economia, chiamiamola così, diede prova di una propria specifica incompatibilità con l’interesse generale e con la stessa politica industriale altrettanto e più spregiudicata di quella che aveva entusiasmato la classe operaia. Alla quale però costava cara. Una notizia finale: pressoché tutti i discussants hanno concluso, salvo che abbia equivocato anche questo, che siamo spacciati.