Si può mettere al centro dei libri “la questione ebraica? Il caso Maxim Biller
Esiste oggi una letteratura ebraica italiana? Una didascalia
Esiste oggi una letteratura ebraica italiana? Non è una domanda retorica, non lo so davvero. Naturalmente, esistono scrittrici e scrittori in lingua italiana di origine ebraica con un egregio rilievo nella nostra letteratura. E molte e molti fra loro scrivono di persone e ambienti con una connotazione ebraica. Chiedo piuttosto se esista una narrativa che abbia al suo centro il rapporto fra l’essere, cioè il sentirsi, ebrei e l’essere italiani, e il rapporto fra l’essere ebrei italiani, o italiani ebrei, e gli italiani non ebrei. Se esista in letteratura, e dunque nella società, una “questione ebraica”, non esaurita dalla verifica dell’esistenza dell’antisemitismo nel nostro paese e della sua portata e della sua evoluzione. C’è un tipico argomento antisemita, più o meno preterintenzionale, di cui è sintomo l’uso di espressioni come “gli italiani e gli ebrei”, anche quando “gli ebrei” sono cittadini italiani. Reso intenzionale, l’argomento imputa “agli ebrei” una doppia identità e una doppia fedeltà, all’Italia di cui sono cittadini e all’ebraismo e a una sua supposta solidarietà, o, addirittura, allo Stato di Israele, col sottinteso che sia la seconda fedeltà a prevalere. O che comunque la cittadinanza sia simulata e irrilevante, rispetto al “cosmopolitismo”. Specularmente, ma non solo per reazione, l’argomento può presentarsi in cittadini e, nel nostro caso, scrittori e scrittrici che si interroghino sul rapporto fra il proprio ebraismo e il contesto sociale e civile. Che nell’imputazione di “doppia fedeltà” sentano il bello di una doppia infedeltà e di una immunità dalle ricadute nazionaliste. (Basta ricordarsi degli ebrei risorgimentali e poi volontari di guerra e poi fascisti e infine brutalmente traditi). C’è dunque una simile letteratura ebraica?
Mi sono appena posto il problema grazie all’incontro fortuito con uno scrittore di origine ebraica in lingua tedesca nato a Praga: no, non è Franz Kafka, lui l’avevo incontrato, come andare sotto un tram. Si chiama Maxim Biller, e l’occasione fortuita è l’uscita di un suo romanzo in italiano per Sellerio. L’ho letto e ho cercato notizie sull’autore, nato nel 1960 da genitori ebrei russi, che migrarono in Germania, a Monaco e poi ad Amburgo, nel 1970, due anni dopo l’invasione sovietica di Praga. Biller vive a Berlino ed è da tempo una personalità di spicco nella scena letteraria e giornalistica tedesca, “controversa”, come si dice di chi rompe le righe. Sulla rivista di rottura “Tempo”, uscita fra 1986 e 1996, Biller tenne una rubrica intitolata “Cento righe di odio”, che non tradiva l’assunto. Dopo, Biller ha preso una rubrica sulla FAZ della domenica che tratta, dice, di “Ebrei, tedeschi, Hitler e sesso”. Il suo primo libro di racconti, “Se fossi ricco e morto” (forse “Quando sarò ricco e morto”), 1990, trattava, dice in un’intervista del 2007 al New Yorker, degli ebrei tedeschi che avevano deciso di restare in Germania: molti di loro sopravvissuti al genocidio. “Scriverne era un tabù, tanto per i tedeschi quanto per gli ebrei. Dunque come avrei potuto affrontarlo? Solo con un umor nero, molto nero. Il mio romanzo ‘La figlia’ (2000) è la storia di un soldato israeliano che commette crimini di guerra nella prima guerra del Libano e cerca di mettere a tacere i propri sensi di colpa fuggendo in Germania, dove finisce per commettere un crimine ancora peggiore. /Una violenza alla propria figlia/. Il romanzo doveva essere cupo come i più cupi libri della Bibbia”. La rinuncia all’idealizzazione dei personaggi ebrei non è nuova, caso mai colpisce che sia così deliberatamente calcata, e non per épater.
I critici segnalano in Biller il tema della fuga sempre tentata, dai luoghi e dal passato – i luoghi sono il passato – e del suo scacco. (Lo vedo accostato da un recensore americano, in un singolare ordine inverso, a “Milan Kundera e Joseph Roth”. Non so se sia un qui pro quo per Philip). È anche un tema essenziale del romanzo ora tradotto da Sellerio, “Sei valigie”.
C’è stato un momento in cui Biller ha annunciato di averne abbastanza e di volersi trasferire in Israele – non l’ha fatto, si è limitato a frequentare Tel Aviv. Non ama Oz e Grossman, tranne “Vedi alla voce: amore”, predilige Etgar Keret. (Nel mondo, naturalmente, va pazzo per Mordecai Richler). Un suggestivo ritratto-intervista di Biller – un Woody Allen più giovane e attraente e narciso e un po’ mefistofelico – l’ho trovato su Haaretz, sempre nel 2007, firmato da Natasha Freundel e intitolato “Il cattivo tedesco”. “Sono sempre stato un così buon tedesco, ma alla fine della scorsa estate tedesca /era il campionato del mondo di calcio vinto dalla Germania/ ho deciso di lasciare la Germania. Andrò dove i bus esplodono e grandinano i katyusha. E mi sentirò meglio”. Freundel è spiritosa. Biller: “Io credo che in un solo mio romanzo ci sia più sesso che in tutti i libri della letteratura tedesca del dopoguerra messi insieme”. Ma poi relativizza: “Be’, forse ho esagerato un po’”.
Biller spiegava come la relazione fra ebrei tedeschi e tedeschi non ebrei si fosse complicata, o allargata, almeno. “Abbiamo questo grosso problema con gli arabi musulmani. Per restare a Berlino, quartieri con una vasta popolazione araba, Kreuzberg, Neukölln, Wedding, sono molto antisemiti. Diventerà un problema per tutta l’Europa, ma per la Germania specialmente”. Questo era tredici anni fa, e osservava che “il tedesco rilassato” avesse smesso di sentirsi in imbarazzo con l’idea di essere nipote di Hitler. (Ho un dubbio su quell’“arabi musulmani”: malavita a parte, direi che la presenza islamica in quei quartieri sia soprattutto turca). L’assimilazione cambia in una società che non è più di “tedeschi e ebrei”, ma di molte comunità “estranee”. All’oriente europeo ebraico succede l’“altro oriente” turco (e curdo, siriano; e ceceno, yazida…). E l’“altro immigrato”. L’ebreo scampato e ritornato era stato un peculiare immigrato, cui si negava quello che era stato suo. L’ebreo mitteleuropeo immigrato da bambino è tedesco, senza esserlo “troppo”, per così dire. (Abbiamo in Italia scrittori italiani, non troppo, con una biografia affine: Helena Janeczek, 1964, Wlodek Goldkorn, 1952, anche Moni Ovadia, 1946… In un’altra, decisiva, generazione Edith Bruck, 1932).
Nel 2003 Biller pubblicò un romanzo clamoroso, “Esra”. La storia rapinosa di un amore, il suo, per una giovane impenetrabile donna turca musulmana che è forse una seguace occulta del cabalista seicentesco Sabbatai Zevi: tema che ha nutrito le più labirintiche interpretazioni. Con un’interpretazione più spiccia la giustizia tedesca ha accolto la denuncia della giovane turca e di sua madre, che si erano riconosciute minuziosamente e, come si dice, scabrosamente, nel romanzo, imponendone il ritiro e ordinando un ingente risarcimento. (Il libro è tradotto all’estero, libero da diritti). Questione delicata. In difesa di Biller si è detto che “se permettiamo alle nostre ex-ragazze e alle loro madri di interferire con i romanzi, le poesie e le opere teatrali, tanto vale che cominciamo a svuotare gli scaffali delle nostre librerie”. Il rischio è di svuotarci di ragazze e madri. Alla fama versatile di Biller si aggiunse il sospetto che qualunque suo rapporto privato venisse trasposto nei suoi testi pubblici.
In un racconto di Biller il personaggio è Bruno Schulz. Di Kafka, dice, e non è solo, che “il miglior tedesco è quello di un ebreo praghese”. Un tedesco che non sia troppo tedesco.
C’è un’insigne letteratura ebraica italiana – peculiarmente la triestina, o goriziana: Primo Levi e Carlo Levi, Giorgio Bassani, Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Moravia?, Giacomo Debenedetti, Clara Sereni – che raccontò l’opposizione fraterna tra l’emigrazione in Israele e la scelta di restare, Giacoma Limentani. C’è una narrativa che racconta storie di famiglia e di esilio, o testimonia della persecuzione e della memoria: Lia Levi, 1931, Aldo Zargani, 1933. Ci sono Elena Loewenthal e, a suo modo, Alessandro Piperno: non so se chiamerebbero i loro “romanzi ebraici”. C’è il vivaio della Giuntina. Nel 2012 Cesare Segre concluse che in Italia non c’è un “romanzo ebraico”.
L’ebraismo italiano ha avuto le più forti ragioni contro l’assimilazione, l’illusione degli “italiani di fede mosaica”, che lo lasciò disarmato davanti allo svelamento della persecuzione. Forse ha influito anche qui uno spostamento sulla superiorità del razzismo tedesco: forse anche Primo Levi fece i conti coi tedeschi, più che con gli italiani. D’altra parte le differenze materiali e culturali fra l’Italia e la Germania, e rispettivamente la Francia e la Polonia, furono sostanziali: nel numero dei cittadini ebrei, nel modo dell’assimilazione, nel peso delle resistenze, nelle falle del programma “totalitario”, nell’assenza di una lingua e una letteratura propria come nel Centroeuropa… Oggi l’antisemitismo sembra sempre più ufficialmente e cerimonialmente messo al bando, e intanto torna a fornire il modello profondo dei nuovi razzismi, o dei razzismi contro i nuovi estranei. Forse può venirne, in rapporto con le loro letterature, un vigore diverso del romanzo ebraico.
* * *
Il romanzo, “Sei valigie” (Köln 2018), è pubblicato da Sellerio nella traduzione di Giovanna Agabio (Il contesto, pp. 163, 15 euro). Ne scrivo non per recensirlo – è bello – ma per prender nota delle questioni che solleva presso un lettore italiano che non sia specialista, né di letteratura tedesca, né di letteratura ebraica. Biller è nato a Praga nel 1960, da genitori ebrei russi. Nel 1970 la famiglia, con il decenne Maxim e sua sorella Elena, maggiore di sei anni, si trasferì in Germania. “Sei valigie” è una storia di famiglia. C’è un vecchio padre, a Mosca, che ci sa fare coi traffici neri di valuta fino a quando le autorità sovietiche decidono di arrestarlo e impiccarlo. Ci sono i suoi quattro figli. Due sono riparati a ovest, in Svizzera e in Brasile, al tempo dell’affare Slánský, 1952. Due vivono a Praga, con le mogli. Semjon e Rada sono i genitori del narratore e di sua sorella. Dima è il quarto fratello, ha sposato una Natalja che era già stata compagna di Semjon, è bellissima, è stata un’attrice ammirata, sogna la Francia e ha continuato ad amare lui. E’ una storia di tradimenti e di segreti. (Ma, diceva il Brecht assegnato allo studente, “C’è un tradimento cattivo e un tradimento buono”). Ciascuno e ciascuna ha una propria versione dei tradimenti altrui e propri, e una propria parte di segreto. Il narratore detesta fin da bambino la sensazione che la famiglia sia un ricettacolo di segreti torbidi, e passerà attraverso la smania di indagine e il suo rigetto. Il segreto cruciale riguarda il tradimento che ha consegnato ai carnefici il vecchio tate. Meschinità, squallore e frustrazione segnano variamente tutti gli attori del racconto, e Auschwitz è, o sembra essere, un mero antefatto marginale delle loro vicende. Forse una simpatia speciale il narratore riserva a Natalja, o almeno permette che il lettore la provi, nonostante il dispetto e la derisione che la madre Rada le assegna tenacemente: c’è una lunghissima lettera di Natalja a Sjoma troppo bella, e c’è il passato, Natalja che voleva avere un figlio solo con qualcuno cui non importasse che cosa era avvenuto prima, che è sopravvissuta unica della sua famiglia ad Auschwitz e alla marcia della morte, quando si è voltata e sua sorella non c’era più, e a Praga rideva e sorrideva e seduceva troppo e Rada chiedeva “Come si può ridere così e pensare al sesso dopo essere stati nei campi di Hitler?”, e c’è la conclusione, Natalja che si butta sotto un camion, sola, a Ginevra. Ma questo non è un riassunto del libro, non c’entra niente, è una didascalia che rinvia alla lettura.