Quei demagoghi e imbonitori da quattro soldi diventati antagonisti del Papa
Viviamo i tristi tempi in cui schierarsi con gli ultimi è da snob
La marcia di Pasqua indetta dal Partito radicale sulla condizione delle carceri (“Per l’amnistia e la Repubblica”) si è svolta anche quest’anno. Disincarnata, niente corpi in cammino – era il bello – solo una catena radiofonica di voci. Sento un’usura delle parole, e me la figuro nei tanti che, come me, benché per vie diverse, hanno fatto della galera un impegno costante e ormai antico. Succede inevitabilmente che parole (e gesti, del resto) pronunciate con la passione della scoperta e dello scandalo, a tanto lungo andare, pur non perdendo niente della loro buona ragione, anzi!, si ripetano però come snervate ed estenuate. Soprattutto quando si avverta attorno una retrocessione nel riconoscimento delle buone ragioni e quasi un compiacimento del loro ripudio. Un (provvisorio?) fallimento collettivo e personale. In apparenza, le cose non stanno così, o almeno sono più contraddittorie. La rivendicazione della dignità umana e della coerenza costituzionale nella concezione e nella pratica della pena coinvolge personalità e istituzioni delle più autorevoli, compresi coloro che la studiano e la amministrano professionalmente, magistrati, avvocati, giuristi, educatori, sociologi, psicologi. La valutazione fredda, per così dire, degli effetti della pena carceraria e dei modi in cui viene inflitta si affianca largamente alla compassione per una pratica che umilia terribilmente chi la soffre, ma abbassa anche coloro in nome dei quali viene inflitta.
Tuttavia questo scenario non è nuovo, e caso mai accentua oggi una tendenza che agisce da tempo. I carcerati, il sottoscala infimo della società costituita, ricevono l’attenzione aperta, più o meno discreta, più o meno franca, di papi e cardinali e vescovi e cappellani, di presidenti di Repubblica e di Cassazione, di emeriti giudici costituzionali, di procuratori generali e di bei nomi dell’arte e della cultura. Un gran Papa andò già nel Parlamento italiano a impetrare un provvedimento di clemenza, un presidente indirizzò solennemente alle Camere un messaggio nello stesso spirito. A tutto questo non corrisponde una disposizione più simpatica del senso comune, ma il contrario, un esacerbato rigetto del buon senso: ecco il caso più singolare della rivolta contro l’élite, divampata (e attizzata) molto più rapidamente della divulgazione del significato della parola. L’élite sono gli altri. Il bisogno di un nemico precede l’adeguatezza del nemico stesso, se lo trova a piacere. Così la dedizione cosiddetta forcaiola dello spirito pubblico trova nella saggezza o nel realismo di tante “autorità” sul punto delle carceri, una riprova dell’alleanza fra il privilegio e gli ultimi, a scapito di penultimi e mediani e insomma del popolo.
Ora mi pare che questo cortocircuito si sia concentrato attorno alla questione cristiana, chiamiamola così. La carità verso i carcerati è un pilastro antico, ma Francesco, il Papa vigente, ne ha fatto una passione peculiare e così irriguardosa della diplomazia e del rispetto umano, e così sensibile all’affinità di fatto fra condizione dei prigionieri e condizione dei migranti, da diventare il bersaglio primo dell’indignazione, dell’irrisione e della sensazione di tradimento dei bravi cristiani e dei cattivi pastori. Prima che nei dissensi teologici e nelle trame cortigiane, è qui che si consuma uno scisma profondo nella chiesa cattolica e nel sentimento cristiano. Il fatto è che le persone libere, che non hanno conti con la giustizia e se ne ritengono, o se ne illudono, immuni, sono offese contro l’élite e contro questo Papa scalmanato esattamente come è offeso il figlio perbene, quello che è sempre restato a casa, dall’ingiusto, incomprensibile favore che il padre riserva al figlio prodigo, quello tornato all’ovile dopo la dilapidazione. Il pensiero cristiano, e a suo modo anche la laica Costituzione, dà inevitabilmente l’impressione di riservare un occhio di riguardo al peccatore, perfino a quello che l’abbia fatta grossa, rispetto a chi non ha sbagliato strada. La miserabilità di questo tempo, di una almeno delle correnti che gli soffiano attraverso, sta in ciò, che si lasci credere, sentire, alle persone che si pensano normali, che sono la maggioranza, il popolo, che a loro venga anteposto, preferito, il detenuto, o il migrante – il delinquente. Che arrivino a provare una specie di invidia, al punto di non vedere quale abisso di disgrazia li separi da un fondo di cella.
Oggi una reclusione domestica inaudita, quasi universale, fa pensare a un’esperienza quasi carceraria, e si può augurarsi che ne venga una comprensione vissuta e intima di che cos’è il vero carcere. Temo piuttosto che prevalga un senso più acuto e irritato di ripudio, uno sdegno di innocenti sottoposti a una prova dura e ingiusta, immeritata, che rischia di assimilarli a quelli che l’hanno meritata. Questa offesa da bravo figlio contro la snobistica, esibita predilezione per il figliol prodigo, è insieme l’effetto e la causa di una degradazione civile che tramuta imbonitori da quattro soldi, a rate, negli inauditi antagonisti del capo della cristianità cattolica, Cristo in terra: Salvini dei rosari, dell’Immacolata, della rivendicazione dell’apertura pasquale delle chiese, un Martin Lutero di suburra, avrebbe detto Marco Pannella. Una simile contraffazione della galera e della vita (e della morte) che vi regna è una incresciosa vittoria della demagogia e della malevolenza. Peccato, che non si riesca a mostrare che cos’è davvero la galera, e chi ci stia, “per lo più”, e come. Eppure noi umani dovremmo esser capaci di riconoscere le cose anche senza finirci dentro. Di immaginarle. Di immaginare un letto di rianimazione anche senza beccare la polmonite e il febbrone, dopo aver scherzato su un raffreddore. Di immaginare quel giorno, del ritorno del figlio prodigo, e gli anni che erano venuti prima, e quelli che sarebbero venuti poi. Di immaginarlo anche se ci sia capitato di essere il figlio fedele, quello che non si è mai allontanato, quello che ora si sente tradito, e orfano di padre e di madre.