Il menestrello Davigo
Lo guardo senza animosità, come in certe osterie si aspettava che il vecchio cacciatore ricominciasse il suo racconto: “Dai, raccontaci quella dell’orso!”. Lui non delude
Il New Yorker di ieri aveva un articolo di Sarah Stillman che si chiedeva: “Will the coronavirus make us rethink mass incarceration?”. Cioè, se la pandemia ci farà ripensare alla carcerazione di massa. Le opinioni che mettono in discussione il modo di concepire le pene si vanno moltiplicando, senza produrre la minima conseguenza pratica, anzi andando insieme a una spensierata o incattivita ottusità carcerista. La vita pubblica è piena di questi paradossi. Per esempio, uno dei luoghi comuni da tempo consolidati dell’antipolitica è quello: “Io non voto per un partito, io voto per la persona”. A furia di scegliere le persone e non i partiti (le idee, non ne parliamo proprio) abbiamo una congerie di istituzioni elettive dalla composizione umana inguardabile. Dei tre attori di Mani Pulite, uno, Di Pietro, scherzava, uno, Colombo, argomenta radicalmente sulla superfluità e nocività del carcere, un terzo, già calunniato come sottile, è il magistrato più votato d’Italia, se non sbaglio. Lo guardo, quando mi capita, senza animosità, come in certe osterie si aspettava che il vecchio cacciatore ricominciasse il suo racconto: “Dai, raccontaci quella dell’orso!”. Davigo non delude. Martedì ha detto che in Italia si scontano le pene più brevi rispetto al resto d’Europa. Non è vero, ma è passata liscia. Quando gli hanno fatto la domanda più scontata e superflua: “Ma c’è un sovraffollamento nelle prigioni italiane?”, ha risposto: “Il tasso di carcerazione italiano è mediamente più basso che nel resto d’Europa”. Risposta degna del signor Veneranda (Manzoni, Carlo). Il tasso di carcerazione (il numero di detenuti su 100.000 abitanti) non c’entra niente con l’affollamento, com’è evidente: ma la risposta, pronta, rilegata, di Davigo non ha sollevato obiezioni. “Davigo, déi, contighe quela de l’orso!”.