Ognuno ha la sua Ungheria
La storia di Ferenc Ungar raccontata da Riccardo Catola ci ricorda da quante e per quante strade diverse noi ragazzi, negli anni 50, sognammo Budapest
Immagino che sia andata così. Un giornalista fiorentino di lungo corso finisce nelle mani salvatrici di un cardiologo e geriatra, Andrea Ungar: per il geriatra c’era ancora tempo, per il cardiologo no. Fanno amicizia, e il risanato, Riccardo Catola, gli chiede da dove venga il suo cognome. Viene dall’Ungheria, naturalmente. Ma è arrivato per vie molto traverse, portato da suo padre. Ferenc Ungar ha 83 anni, è stato a sua volta primario ortopedico a Firenze, dov’è oggi console onorario del suo paese d’origine. La storia sua e dei suoi è passata accanto o attraverso le vicende cruciali del Novecento europeo. Nato da padre e nonni ebrei e circonciso, Ferenc era stato battezzato dalla madre cristiana protestante, ed era scampato alla sorte di centinaia di migliaia di ebrei ungheresi, suo padre fra loro. Era sopravvissuto bambino al terribile assedio di Budapest, aveva vissuto ragazzo nell’Ungheria sovietizzata, aveva partecipato ventenne alla rivoluzione del ‘56: un corteo improvvisato di giovani che si erano voltati indietro e avevano scoperto che un popolo li stava seguendo. Poi la repressione sovietica, 4 mila carri armati, 200 mila militari, la fuga, rocambolesca come sono le fughe, verso l’Austria, la prima Coca Cola (bisogna essere liberi di berla per decidere di non berla) e l’improvvisata destinazione italiana, gli incontri con persone solidali indignate dall’inerzia dell’occidente e dalla complicità del comunismo fedele al Cremlino, la vita nuova: la Roma intellettuale e artistica cui il giovane è introdotto dalla moglie ungherese di Mario Pannunzio, Mary, le ragazze. E le scelte fatidiche, la carriera di medico e specialmente Anna, donna e sposa della sua vita, e la progenie di tredici, finora.
Questa trama sommaria aspettava solo di essere svolta e raccontata, tanto più che Ferenc ha una gran memoria e un talento per i dettagli significativi e le coincidenze drammatiche o divertenti. Chi legge si accorge subito che Catola non è il giornalista che mette in pagina il racconto di un personaggio dalla vita memorabile. Al contrario, ha trovato una grand’occasione per rimettere insieme la storia grande e minuta di un secolo, che è stata anche il contesto della vita pubblica e personale sua e degli europei arrivati fin qua. E ha allargato i cordoni del racconto, senza soggezione. Sissi e Franz Joseph, venerati dal nonno ebreo del protagonista e, specialmente lei, dagli ungheresi che aveva prediletto. Si può riscrivere di Sissi, dunque, e di Bela Kuhn e di Lukács e di Kossuth e di Hidegkuti e di Zsa Zsa Gabor. Perfino della Shoah: è stata tanto raccontata, ed era stata taciuta tanto, perché non raccontarla ancora una volta? Dopotutto nessun lettore troverà di sapere tutto, di ricordare tutto. Catola ha scritto in prima persona, quella di Ferenc, ma facendone per così dire una prima persona condivisa, una mezzadria letteraria rispettosa delle precedenze. C’è, fra i vantaggi della lettura, la scoperta dei tanti ed emozionanti legami fra le nostre storie più belle e gli ungheresi, gli scrittori, le attrici, i calciatori, i musicisti, gli scienziati, le filosofe, i poeti… Ognuno ha la sua Ungheria, del resto, e l’Ungheria fa di tutto – davvero, di tutto – per dare a ciascuno l’Ungheria di cui ha voglia. Attila József per il tramite di Umberto Albini, per me, e il Clemente Manenti di “Ungheria 1956” (Sellerio) e Livia Cases e, a Firenze, i Cataluccio e l’appartamento della famiglia Gheno.
Il libro, “Chiamatemi Ungar”, con un corredo fotografico, è edito da Polistampa e ha una prefazione di Franco Cardini, il quale partì nell’autunno del ’56 con uno o due compagni di prima liceo alla volta di Budapest, per andare a combattere e morire coi giovani eroi ungheresi. Impresa interrotta, banalmente, prima del Brennero, ma buona da ricordare. Da quante e per quante strade diverse noi ragazzi di allora sognammo Budapest.