Rileggere l'Italia nell'ultimo romanzo di Bruno Arpaia
“Il fantasma dei fatti” e quattro episodi tragici (legati tra loro?) che hanno cambiato la storia italiana
Fra i libri che sono venuti fuori pressoché insieme all’epidemia c’è “Il fantasma dei fatti” di Bruno Arpaia (Guanda, pp. 279, 19 euro): brutto scherzo. Ma Arpaia si è guadagnato un seguito di lettrici e lettori (anche una corona ingente di premi letterari) ed è riuscito a curare il viaggio del suo romanzo anche da lontano, e ora le librerie sono riaperte. Aveva studiato, scritto e interrotto lungo undici anni, si era ispirato o era stato sospinto da maestri e amici preziosi: sciasciano è il titolo, Peppe D’Avanzo e Pietro Greco i suoi amici e consiglieri, Javier Cercas e Paco Taibo II e signora i suoi interlocutori e ospiti. Undici anni sono lunghi abbastanza per cominciare con un’idea – che il responsabile romano della Cia all’inizio degli anni 60, Thomas Karamessines, fosse un maledetto figlio di puttana e stesse dietro agli avvenimenti che cambiarono allora il destino dell’Italia, a partire dalla morte di Enrico Mattei – e finire con un’altra, che il mondo e la stessa Cia fossero più complicate e che anche un figlio di puttana potesse tener fede alle sue regole dichiarate e resistere a figli di puttana peggiori di lui. L’idea generale, che è rimasta, era ambiziosa come ogni riduzione a uno: in nemmeno tre anni, fra l’ottobre 1961 e l’inizio del 1964, la storia italiana venne fermata e dirottata da quattro episodi tragici o drammatici: la morte in un incidente stradale di Mario Chou, l’ingegnere che aveva fatto dell’Olivetti un’azienda di punta nell’informatica mondiale, la morte di Mattei in un incidente aereo e la fine della sua sfida sull’indipendenza energetica, gli scandalosi arresti e le condanne di Felice Ippolito, direttore del comitato per l’Energia nucleare, e di Domenico Marotta, direttore dell’Istituto superiore di sanità. L’Italia ne uscì ridimensionata a uno sviluppo senza conoscenza, quello che la fa piccola e accessoria ancora oggi. Potevano appartenere, quei quattro eventi, a un piano unico?
La domanda basterebbe a respingere chi sia esausto della inesorabile perfezione con cui la paranoia politica e la gelosia amorosa cuciono e ricamano tutti i dettagli dell’esistenza. Ma vediamo. All’intelligenza delle cose sono allestiti due tranelli principali: la verosimiglianza, e la categoria logico-morale “sappiamo, ma non abbiamo le prove”. E’ evidente, o dovrebbe esserlo, che la verosimiglianza può essere il mascheramento della verità, e che niente si sa davvero senza averne le prove. Avvertimenti tassativi quando si tratti dei tribunali, nei quali al contrario se ne abusa più spesso, sostituendo la verosimiglianza alla verità, e la certezza dichiarata, la presuntuosa prova logica, alla prova di fatto. Ma la verità dei tribunali è altra cosa dalla verità, e anche da quella peculiare verità che è dei romanzi. Una verità “quasi” inafferrabile, con personaggi ed eventi reali mutati in frutto di invenzioni, “forse”. Questo il bel libro di Arpaia, buono a conoscere e ripassare, chi c’era e crede di saperla, l’Italia e il mondo che abbiamo, letteralmente, alle spalle.