(foto LaPresse)

Mattarella e Pahor si tengono per mano a Trieste: un gesto storico che resterà

Adriano Sofri

L'incontro tra i due presidenti a 100 anni dall’incendio squadrista del Narodni dom

Il 3 ottobre 1969 un gruppo di ordinovisti partì da Venezia, con l’auto di Carlo Maria Maggi, per andare a collocare due ordigni esplosivi, a Gorizia e a Trieste. Gli ordigni, di gelignite, con una potenza superiore a quella impiegata due mesi dopo a Piazza Fontana, erano stati preparati da Carlo Digilio. A collocarli fu Delfo Zorzi, al cippo confinario sul limite sloveno della terra di nessuno di fronte alla vecchia stazione goriziana e, confessò Martino Siciliano, sul davanzale della scuola elementare slovena di via Caravaggio, nel quartiere di San Giovanni a Trieste. Sul luogo vennero lasciati volantini di un “Fronte antislavo” contro la progettata visita del presidente della Repubblica Saragat a Tito e sulle foibe. Gli ordigni non esplosero per un difetto nella batteria. Esplosero il 12 dicembre, e poi, il 28 maggio 1974, in piazza della Loggia a Brescia, facendo strage. Organizzatori e autori erano gli stessi. La strategia della strage è stata incubata soprattutto nei territori in cui più brutale era stato il regime fascista contro le minoranze, sloveni e croati al cosiddetto confine orientale, sudtirolesi germanofoni al confine austriaco, dove un terrorismo irredentista diventò un’occasione prediletta dalla provocazione dei servizi italiani e atlantici. “In Italia”, le vicende di quei territori vengono per lo più ignorate o considerate come beghe e intrighi di periferia, e sono state invece il laboratorio delle manovre contro la democrazia e delle tragedie che hanno suscitato. 

 

 

Oggi, a Trieste, i presidenti delle repubbliche slovena, Borut Pahor e italiana, Sergio Mattarella, hanno dunque compiuto, tenendosi per mano, gesti di quelli che si definiscono storici, e comunque segnati da una “prima volta”. Per la prima volta, il presidente sloveno ha reso omaggio al monumento alle vittime delle foibe a Basovizza. Per la prima volta, il presidente italiano ha reso omaggio al monumento ai Quattro militanti antifascisti triestini di origine slovena e croata condannati dal Tribunale speciale fascista e fucilati nel settembre 1930 a Basovizza (qui era la prima volta anche per Pahor). La giornata, a cent’anni dall’incendio squadrista del Narodni dom, la Casa nazionale delle comunità slave di Trieste, aveva al centro la riconsegna alla comunità slovena del palazzo di Max Fabiani, ora occupato dalla scuola per interpreti dell’università. Un avvenimento a lungo atteso: quanto a lungo si poteva leggere sul viso di Boris Pahor, che al rogo del Narodni dom, cui aveva assistito a sette anni, fa risalire la sua formazione di uomo e di scrittore. Pahor sta per toccare i 107 anni, ieri ha visto la restituzione e anzi ne è stato un protagonista, per i riconoscimenti che ambedue i presidenti hanno voluto tributargli. Ma è stato per ciò stesso il campione raro ed esemplare della resistenza occorsa per testimoniare del risarcimento.

 

I gesti storici pagano il loro pegno. A Trieste (e anche a Lubiana, al cui governo stanno un primo ministro e una coalizione nazionalisti) l’agenda cerimoniale della giornata ha dovuto misurarsi con una quantità di inciampi e veti: altro che un colpo al cerchio e uno alla botte. La cosiddetta Foiba di Basovizza, che è un vecchio pozzo minerario, è la più controversa quanto a realtà e numeri di vittime (le migliaia pigramente ripetute nelle cronache sono del tutto dubbie) e ha comunque assunto un significato di monumento a tutte le vittime delle foibe. I Quattro militanti fucilati nel 1930 – Ferdo Bidovec, Zvonimir Miloš, Fran Marušicč e Aloyz Valencicč (giovani uomini fra i 24 e i 34 anni, non “ragazzi”) – erano stati condannati come autori di un attentato al Popolo d’Italia che voleva essere dimostrativo ma era costato la vita a un redattore del quotidiano fascista (voglio ripetere quella notizia così enorme e ignorata sulla giustizia fascista: delle 31 condanne a morte pronunciate fra il 1927 e il 1943 dal Tribunale speciale per la Difesa dello stato ed eseguite, ben 24 furono di sloveni e di croati). Il presidente italiano non avrebbe potuto restituire solennemente il Narodni dom senza compensare con l’omaggio alla Foiba. Il presidente sloveno non avrebbe potuto recarsi alla Foiba senza compensare con la visita al monumento ai Quattro – che per la destra italiana restano “terroristi”. E’ notevole che abbiano concordato (e per loro già i due ministri degli esteri) questa doppia commemorazione, osteggiata di qua e di là. Non bastava: l’estrema destra italiana aveva preteso la proclamazione festiva del 12 giugno come “Giornata della Liberazione dall’occupazione jugoslava”. Inoltre, fra il contagio e il rischio di incidenti, l’intera agenda è stata costretta dentro tempi strettissimi, con un largo spiegamento di polizie e una minima partecipazione civile, la tappa al Narodni ridotta a una visita a una mostra storica sull’edificio, la firma del protocollo di riconsegna in prefettura con pochi inviti e senza giornalisti, brevi sensati discorsi di saluto dei due presidenti (uno più oggettivo del ministro dell’Interno Lamorgese). Dopo, un incontro di Mattarella con i dirigenti delle associazioni degli esuli. E, a cose finite, una manifestazione silenziosa di esponenti sloveni davanti al Narodni. I gesti storici vengono rarefatti e annegati in una sequela di gesticolazioni collaterali: adda passa’ ’a giurnata. La giornata passa, i gesti storici resteranno: bisognerà meritarli.