Piccola Posta
Pessimismo del Covid. La seconda ondata con gli occhi di Gramsci
Hanno avuto ragione gli scienziati che avevano avvertito della virulenza del virus e, tra i profani, i pessimisti. Cosa ci insegnano Leopardi e Gramsci
Una delle caratteristiche del pessimismo, nei noiosi manuali di psicologia, sta nell’inclinazione a ritenere che le cose negative “siano piuttosto permanenti, cioè molto durature”. A questo punto della seconda ondata cosiddetta, un bilancio si può già fare. Hanno ben figurato quelli che sono stati più zitti. Hanno avuto ragione gli scienziati che avevano avvertito della virulenza e, fra i profani, i pessimisti. Gli scienziati sono stati provvidenziali per ripristinare una decenza minima nel riconoscimento del sapere, della competenza e dell’esperienza, ma hanno poi dilapidato larga parte del prestigio in rivalità, invidie, imposture, schieramenti di fazione politico-accademica eccetera, e soprattutto in zelo da telecamere, sicché il merito di quelli che si erano opposti alle minimizzazioni e avevano ammonito sull’autunno caldo si è assottigliato.
Resta la lezione principale, incontrovertibile, che la ragione stava dalla parte dei pessimisti, qualunque fosse il loro mestiere, scienziate e scienziati o donne e uomini della strada. Lezione non nuova. Nonostante il preteso equilibrio fra azionisti del mezzo pieno e mezzo vuoto, l’ottimismo è tendenzialmente stucchevole. Il pessimismo è profondo ed eccitante. Naturalmente, non la sua caricatura nel malumore lagnoso e rancoroso. Il pessimismo anche più lucido e radicale si procura infatti un antidoto almeno simbolico, per non cedere alla resa. Noi italiani abbiamo due esempi insigni fra i tanti, singolarmente imparentati: Giacomo Leopardi e Antonio Gramsci.
Di Leopardi anche il pessimismo ultimo, materialista e cosmico, si accompagna a una combattività disillusa: pessimismo agonistico, lo chiama Sebastiano Timpanaro. E Gramsci (che del resto liquidava “quegli stati d’animo volgari e banali che si chiamano pessimismo e ottimismo”) si appiglia presto alla combinazione che attribuisce a Romain Rolland, il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà, che a un pessimismo agonistico somiglia. C’è anche una fragilità fisica ad accomunare i due, quella per la quale i professori di una volta spiegavano che Leopardi faceva le poesie tristi perché era gobbo.
E, Dio li perdoni, non avevano del tutto torto, perché, spiega Sebastiano Timpanaro, “l’esperienza della deformità e della malattia non rimase affatto nel Leopardi un motivo di lamento individuale, un fatto privato e meramente biografico, e nemmeno un puro tema di poesia intimistica, ma divenne un formidabile strumento conoscitivo. Partendo da quell’esperienza soggettiva il Leopardi arrivò a una rappresentazione del rapporto uomo–natura che esclude ogni scappatoia religiosa e che, per il fatto di essere personalmente sofferta e artisticamente trasfigurata, non perde nulla della sua ‘scientificità’”.
Qualcosa del genere successe a Gramsci, che la sentenza sull’intelligenza pessimista e la volontà ottimista la ripeté e variò tante volte, e innumerevoli volte la ripetono gli epigoni, senza ricordarsi per lo più che verso la fine lui, Gramsci, scrisse: “Fino a qualche tempo fa io ero, per così dire, pessimista con l’intelligenza e ottimista con la volontà. Oggi non penso più così. Ciò non vuol dire che abbia deciso di arrendermi, per così dire. Ma significa che non vedo più nessuna uscita concreta”.