Picola posta
Le storture dell'America non sono curabili con la sola vittoria elettorale dei buoni
Non basta vincere qualche spareggio sull’orlo del disastro, soprattutto se non c’è il castigo imposto dallo stato di diritto
Si era già visto di tutto al cinema, cioè in America, solo che le cose più rocambolesche avvenivano alla Casa Bianca, non al Campidoglio. Agli Stati Uniti d’America il golpe presidenziale del 6 gennaio costerà forse più caro del colpo colossale dell’11 settembre. Tutto il mondo li ha guardati in diretta ambedue, ma allora, nemmeno vent’anni fa, il bersaglio era l’America, questa volta l’America era insieme il bersaglio e l’attentatore. Perciò suonano incredibili le dichiarazioni, anche le meglio intenzionate, dei buoni, che denunciano l’assalto dei cattivi all’America, che rivendicano l’America vera, la loro, quella democratica e rispettosa delle leggi. E’ passato troppo tempo e troppo tenacemente si è scavato sotto i piedi della democrazia perché si possa mettere fra parentesi l’abominevole quadriennio di Trump e il suo miserabile colpo di coda. Non è stata un’ennesima invasione degli Hyksos. Il mondo che guardava, una gran parte del mondo che guardava, si diceva, sbigottito o euforico, che la vera America era quella, il grottesco Trump, la folla sulla scalinata del Campidoglio e nelle sue aule e nei suoi recessi, l’imbecille con le corna che a Trump sopravvivrà, le forze dell’ordine che cedevano all’invasione quando non le aprivano i portoni, come nei tradimenti cortigiani.
L’America proverbiale, odiata come gendarme del mondo o auspicata come polizia internazionale, non voleva o non era in grado di impedire a dei pagliacci esaltati di rompere le finestre della sua casa di vetro: con i Black Lives Matter avrebbe sparato a mitraglia prima che si accostassero ai gradini, l’ha detto perfino Biden, che ha detto tutte cose decenti, a condizione che segua un castigo pubblico, legale. Le elezioni vinte, stravinte, dai buoni, non bastano a raddrizzare il bastone troppo piegato e storto dall’altra parte. La prima reazione che guardando il pomeriggio di Washington il mondo si scambiava nei messaggi, di incredulità e di sgomento, non era vera in realtà, e man mano che i minuti passavano prevaleva la sensazione opposta, che tutto fosse annunciato e previsto, proprio per quel giorno, proprio per quella ora, e che i quattro anni di Trump non fossero stati se non la lunghissima prova generale di quella scena. E che ogni altro paese dell’occidente avesse seguito come un’ombra, come un cast secondario, lo stesso spartito, passo dietro passo, così che suona ridicolo e grottesco il tentativo di populisti sovranisti e complottisti e fascisti di distinguersi in extremis dalla scena culminante, come se si trattasse di un’appendice posticcia, e non della rivelazione conclusiva dell’intero spettacolo.
Non c’è più “l’America”, non c’è più “l’Europa”, e non basta più che i buoni (i buoni in democrazia sono gli avversari dei cattivi) vincano qualche spareggio sull’orlo del disastro, soprattutto se non c’è il castigo imposto dallo stato di diritto. La ragion di stato suggerisce all’orecchio dei responsabili di lasciar perdere, di passarci sopra, di guardarsi dal prestare il fianco ai violenti. Di evitare il castigo per paura della guerra civile. La ragion di stato ha questo di certo, di essere sempre malintesa, e di tirarsi addosso, tutt’al più con qualche minuto di dilazione, il pericolo che vuole sventare. Poi, c’è da pregare a mani giunte che fra i buoni, quelli che l’abitudine al potere grande o mediocre non ha ancora reso del tutto imbecilli, qualcuno ci sia capace di fare i conti con le storture profonde che sempre più spesso fanno vincere i cattivi.