Piccola posta
Ce le hanno date, ma gliele abbiamo dette
Presente e passato, memoria, psicologia, nostalgia e autodifesa. Dall'Ancien Régime fino alla requisitoria contro il presente e la sua maligna congiura contro la storia: due nuovi libri di Adriano Prosperi
Mi sono arrivati, uno dietro l’altro, due nuovi libri di Adriano Prosperi, col quale mi congratulo. Uno è grosso, 491 pagine, si intitola "Il lato sinistro”, è edito da Mauvais livres, in memoria dei libri cattivi messi all’indice da preti e gendarmi nella Francia dell’Ancien Régime – così spiegano i due editori, Andrea Montanino e Gianluca Basili, trentenni ma già librai dell’usato. La loro prima collana è diretta da Valerio Magrelli, ha cura di carta e caratteri, una fascetta di Pablo Echaurren e un titolo da Williams Carlos Williams, “Sassifraga” – il fiore che spacca le pietre. Tutto ambizioso e insieme ironico, fa venire in mente Brassens, Je suis d’la mauvaise herbe, braves gens braves gens. I primi due autori sono Chiara Frugoni e appunto Prosperi, che raccoglie una quindicina di saggi editi e alcune pagine inedite, rivendicando l’accezione politica del lato sinistro. Ho letto con un piacere particolare l’intervento che chiudeva un ricco seminario dell’Università di Barcellona nel 2011, in suo omaggio, in cui Prosperi rende a sua volta omaggio ai propri maestri, a cominciare da Armando Saitta.
Il secondo libro è, al contrario, smilzo, 121 pagine delle “Vele” Einaudi, si intitola “Un tempo senza storia. La distruzione del passato”, è una requisitoria contro il presente e la sua maligna o distratta congiura contro la storia, a partire dalla scuola, e con le manifestazioni più triviali nella politica. Non che Prosperi non veda quale enorme vantaggio assicurino i mezzi di conoscenza contemporanei, Google, per intenderci, tanto più a chi abbia prima fatto “buoni studi”. Ma si è interrotta la trasmissione tra le generazioni, nella società, nella famiglia e nella scuola. Non sono sicuro di aver capito bene la distinzione, cui Prosperi esorta, fra memoria e storia, se non nel contrasto, che tende a diventare insofferenza e conflitto aperto, fra testimoni, che la nostra longevità protrae a oltranza, e aspiranti storici, impazienti di occupare un campo sgombro (la pandemia aiuta). Un fenomeno che la brevità media e accidentata delle vite riduceva fino all’irrilevanza di risentimenti di veterani, è oggi sentimento vissuto di intere generazioni: il sentimento che gli aspiranti storici del tempo che è stato il loro non ne sappiano e non ne vogliano capire niente.
Psicologia, nostalgia, autodifesa, come volete, ma è anche il punto drammatico della perdita degli ultimi testimoni diretti della Shoah, sostituita solo in parte dall’esperienza diversa della loro seconda e terza generazione. La condizione dell’inizio, il ritorno dai campi, l’insofferenza verso storie così tristi e smisurate, che mortificavano e sminuivano la tristezza di altre storie, l’insofferenza che faceva rifiutare il libro di Primo Levi e persuadeva i superstiti al mutismo, torna a presentarsi, esacerbata, alla fine della parabola, quando alla negazione e alla minimizzazione si aggiunge una specie di sazietà: ancora Auschwitz, ancora ebrei, non se ne può più, la vita continua. Era durato moltissimo, il silenzio dei testimoni, sessant’anni, per Sami Modiano, che ora non vuol perdere un giorno.
Eppure, ancora oggi, stenta a farsi strada una essenziale conclusione sulla storia dell’Italia, dopo che si è appena incrinata la canzone degli italiani brava gente: che gli italiani, una schiacciante maggioranza di italiani, sono stati quelli che hanno assistito senza battere ciglio, quando non hanno applaudito o non ne hanno approfittato, all’umiliazione, il saccheggio, la tortura, la deportazione e lo sterminio di altri italiani, di loro vicini di casa, alunni, compagni di scuola. Non si era nemmeno arrivati a sbattere il muso contro i testi delle leggi razziste, ottant’anni, e le attuazioni, e a intravvedere questo punto, e già si reinvocava a gran voce la necessità guaritrice dell’oblio, la liberazione dal peso del passato. In nome di un presente che a sua volta perde la fiducia nel futuro, un presente che si esaurisca in sé dimenticando di essere l’inizio del futuro. I libri non provocano più le rivoluzioni. Forse si accontentano di funzionare come nella frase famosa: Ce le hanno date, ma gliele abbiamo dette. Che, perfino la frase, ha un versante pessimista, basta invertirla: Gliele abbiamo dette, ma quante ce ne hanno date.