Piccola Posta
Dalla Shoah a Lipa, ecco la domanda che rende codarda la coscienza
Il disprezzo bestiale dei guardiani, l’indifferenza degli spettatori, la demolizione del corpo, la distruzione del pudore. Il libro di Camillo Brezzi e il rapporto di ognuno di noi con le vittime e con gli aguzzini
Vorrei svolgere qualche pensiero sulla Giornata della Memoria appena trascorsa, a partire da un agile libro di Camillo Brezzi per il Mulino L’ultimo viaggio. Dalle leggi razziste alla Shoah. La storiografia, le memorie (175 pp., 15 euro). Mi pare che si distingua in una bibliografia finalmente tanto ricca. Ha al centro un capitolo relativamente meno esplorato, il viaggio di andata delle persone deportate ad Auschwitz per la colpa di essere nate in una famiglia ebraica. (Brezzi cita bensì sul tema Carlo Greppi, L’ultimo treno. Racconti del viaggio verso il lager, Donzelli 2012: “I sopravvissuti ci hanno mostrato come la deportazione verso i lager non sia stata altro che un maestoso processo di produzione sociale di indifferenza – dalla stazione alla frontiera, dall’interno del vagone all’arrivo nei paesi dalle persiane chiuse – in gran parte riuscito. Milioni di persone hanno visto tutto questo accadere, milioni sono stati complici, milioni sono morti”). Pur attorno a quel tema centrale, Brezzi ricostruisce vivacemente la vicenda che va dal razzismo antisemita fascista alla Shoah, così da offrire un’introduzione preziosa a chi non sia pronto alla mole di studi specialistici, o ne sia intimidito.
Il viaggio, fin dai carri bestiame che destituiscono i trasportati della loro dignità di umani e di individui, inaugura la discesa agli inferi. Come se i deportati, che lo sappiano o no, non fossero ancora morti, non fossero già più vivi. Lo sanno, spesso. Altre volte no, o non vogliono e non possono saperlo: com’è possibile che succeda davvero, che uomini facciano questo al loro prossimo, altri uomini, donne, bambini? E anche quando la domanda non investa l’enormità impensabile del male, si ferma sull’insensatezza: perché mettere in opera una simile impresa di trasporti oltre tante frontiere quando si vuole una cosa così a portata di mano – assassinarli? Il viaggio è fisicamente terribile, moralmente devastante. Insegna il disprezzo bestiale dei guardiani, l’indifferenza o lo scherno degli spettatori, la demolizione del controllo sul proprio corpo, la distruzione del pudore. Il bidone straripante dei bisogni tiene la scena. Fa già dire se questa è una donna, se questo è un uomo.
Brezzi racconta attraverso le memorie di alcuni, sette soprattutto, deportati e reduci da Auschwitz, dei più famosi; tutti hanno scritto, in tempi e stili molto diversi, ma con una stessa determinazione di testimoni. Primo Levi, partito dal campo di Fossoli, che poi al lunghissimo viaggio di ritorno dedicò La tregua. Liliana Segre, il suo viaggio di tredicenne dal sottosuolo della stazione di Milano. Shlomo Venezia (1923-2011), partito ventenne da Atene, che nel 2007 aveva consegnato all’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano (Brezzi ne è direttore scientifico) il suo dattiloscritto pubblicato poi per Rizzoli, Sonderkommando Auschwitz. Le due sorelle Tatiana e Andra Bucci, sei anni e quattro anni e mezzo, il cui viaggio comincia da Fiume. Piero Terracina, 15 anni e mezzo, che parte da Roma e poi da Fossoli. E il suo amico, “come fratello”, nel campo e poi sempre, Sami Modiano, partito quattordicenne da Rodi. E altre e altri le cui storie si incrociarono con le loro, o che ricordano come li ascoltarono al ritorno, così Cesare Cases con Primo Levi: “Stavamo ad ascoltarlo con il rimorso degli scampati”. Scampati di secondo grado, per così dire: alla morte, come il Levi “salvato”, e al campo.
Brezzi racconta, in un’affabile presentazione, di essere stato spinto a scrivere il nuovo libro dallo stupore per il paragone dilagante della pandemia con la guerra: impensabile per chi sia passato davvero attraverso la guerra, e anche chi l’abbia studiata nelle carte e nei testimoni. Lo si può capire anche con molto meno, anche solo dando un’occhiata ai migranti di Lipa, addossati gli uni agli altri con le ciabatte nella neve, contro una barriera di filo spinato: nessuna distanza di sicurezza fra loro, una distanza di manganellate fra loro e l’Europa. L’amore per i paragoni si tira spesso dietro la perdita della misura. La conoscenza della Shoah ha cercato giustamente di mettersene al riparo, di custodire una sua incomparabilità di quantità e di qualità.
Argomento senza fine: negli scorsi giorni sulla Stampa Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma, ribadiva l’unicità della Shoah per preservarla dalla riduzione alla cronaca corrente. “I barconi dei migranti con la Shoah non c’entrano nulla, né la propaganda antiebraica degli anni trenta può essere comparata allo scontro politico odierno. Chi si presta alle facili, e a volte fantasiose, comparazioni, aiuta, forse inconsapevolmente, a sbiadire ciò che dovrebbe essere impresso nella nostra mente”. È anche così. E all’indebita o ignobile comparazione appartiene la pretesa di imputare agli ebrei, perché furono vittime, uno speciale dovere di solidarietà: compiacendosi di chiamare “nazisti” i comportamenti di ebrei, o israeliani, cui ci si oppone. Tuttavia ricordo come Tullia Zevi chiamasse la comunità, in nome della sua memoria, a prendere posizione contro il massacro (e il genocidio) in Bosnia. Io ho un ricordo esemplare per così dire inevitabile, senza che comporti una comparazione di valore o di gerarchia. Ascoltai raccontare da anziani ceceni la deportazione staliniana del loro popolo in Asia centrale nel febbraio 1944: ne sarebbero tornati, ben più che decimati, tredici anni dopo.
Il Parlamento europeo raccomandò di chiamarlo genocidio, io lo ricordo per un dettaglio. Erano stati rastrellati da un’ora all’altra e caricati sui vagoni da bestiame per un viaggio lunghissimo. Quegli anziani musulmani superstiti non sarebbero mai riusciti a parlare di secchi adibiti ai bisogni corporali. Con gli occhi bassi, o la mano sugli occhi, dicevano solo che molti erano morti nel viaggio “per la vergogna”. L’accostamento vale qui a ricordare come gli umani possano somigliarsi nel male, e somigliarsi nel dolore. Quanto alla cronaca corrente, ieri il Foglio intitolava efficacemente un editoriale redazionale su “Le Uigure, come nei campi nazisti”. L’attaccamento all’“unicità” può indurre alla renitenza verso i genocidi e le atrocità di massa che nel mondo si sono perpetrati e si perpetrano sotto i nostri occhi, e al tentativo di prevenirli? So che c’è una discussione annosa e tesa, storica, politica, giuridica, morale e forse soprattutto psicologica. Che forse divide anche dove si può condividere.
Ancora, Brezzi cita gli “ardui interrogativi” che, dice David Grossman, ciascuno può porsi grazie all’identificazione suscitata dalle storie personali, private: “Come mi sarei comportato io se fossi vissuto a quell’epoca, in quella realtà? Come mi sarei comportato se fossi stato una delle vittime, o un connazionale degli aguzzini?”. Domande inevitabili e rischiose che ciascuno di noi conosce, e possono rotolare nello “scrupolo” di Amleto, “che dà alla sventura una vita così lunga”. C’è una domanda supplementare, che può contribuire anche lei a rendere codarda la coscienza: “Come mi comporto io, nella mia epoca, oggi, in questa realtà? In quale punto della geografia morale e civile mi trovo rispetto alle vittime o agli aguzzini?”. E tuttavia la domanda deve far vacillare quanto al presente, ma non procurare un alibi al passato. Questo ha a che fare con lo studio, con la memoria e con la storia. Nei racconti delle scolare, degli scolari ebrei espulsi c’è sempre il ricordo del modo in cui maestre, insegnanti, presidi glielo comunicarono, del modo in cui padri e madri glielo spiegarono e li consolarono. Ma quante interviste, quanti racconti abbiamo del modo in cui madri e padri “ariani” insegnarono alle loro bambine, ai loro bambini, a non salutare più i loro compagni di scuola cacciati, a voltare il viso quando li incontravano, a far finta di non conoscerli? A farli diventare invisibili – quando non ad arrivare a deriderli?