Piccola Posta
Il dramma dell'esodo istriano visto con con gli occhi di chi vive nel 2021
Il film di Mario Bonnard, "La città dolente", sull’abbandono di Pola da parte della popolazione italiana è un documento unico, attraverso il quale interrogarsi su fanatismo e indulgenza. Di oggi e di ieri
Facendo un passo di lato, il 10 febbraio, ho guardato (per la prima volta, colpa mia) “La città dolente”, il film di Mario Bonnard sull’abbandono di Pola da parte della popolazione italiana, che comprendeva in città più di 30 mila persone, dopo che il Trattato di Parigi, febbraio 1947, assegnò l’Istria alla Jugoslavia. Il film fu girato a ridosso dei fatti, uscì alla fine del 1948, e fece in tempo a inserire nel suo racconto anche la persecuzione dei militanti comunisti italiani restati fedeli all’Urss di Stalin quando i comunisti jugoslavi di Tito ruppero con Mosca e vennero espulsi dal Cominform. Il film ha dalla sua molte singolari ragioni di interesse.
La prima, di contenere brani reali dell’esodo girati da operatori di cinegiornali, Enrico Moretti e Gianni Alberto Vitrotti, autori di un documentario su “Pola, una città che muore”. E questi spezzoni, i carri con le masserizie ammucchiate alla meglio, l’imbarco sulla nave “Toscana” che fece più viaggi carica dei profughi, sono intercalati con maestria nelle scene del film, che ha la fotografia di Tonino Delli Colli. Quanto alla sceneggiatura, porta i nomi di Anton Giulio Maiano, Aldo de Benedetti, tornato alla vita civile dalla quale era stato espulso perché ebreo, e Federico Fellini. La trama è dignitosamente fotoromanzesca. Tutti gli italiani partono, non il meccanico Berto (Luigi Tosi), che resta, nonostante abbia una giovane moglie e una bambina di pochi mesi, perché conta di ereditare l’officina in cui lavora e perché si lascia persuadere dall’amico Sergio, convinto che quella dei partigiani jugoslavi sia la parte giusta.
Berto dovrà presto ricredersi e riuscirà a far partire con l’ultima traversata moglie e figlia – accompagnate e protette da un prete trentino, don Felice Odorizzi, che fu davvero popolarissimo protagonista del dramma della comunità italiana. Dopo una notte d’amore con una comandante partigiana jugoslava – l’attrice è Constance Dowling, amata non riamante del Pavese di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi – Berto, tetragono alla propaganda dei vincitori, viene internato in un campo di “rieducazione”. Riesce a fuggirne grazie al sacrificio del pentito Sergio. Quando finalmente arriva al mare, in vista della costa italiana, dopo una lunga e terribile peripezia, Berto viene falciato da una raffica di mitra.
Il film è ingenuo, in qualche punto troppo, bello da vedere, ed è un documento unico di un modo di considerare l’esodo istriano dal versante italiano contemporaneo: tutti gli attori della storia sono inchiodati a un loro destino tragico di perseguitati o persecutori, o le due parti a turno, e obbediscono comunque a quel destino, così la comandante partigiana comunista che consegna Berto al lager col cuore spezzato, così il prigioniero italiano che fa la spia contro Sergio per prenderne il posto di kapò e trasale quando lui viene fucilato. Nonostante ciò, il film fu visto pochissimo, non riscosse alcun interesse (e Bonnard era un regista di cassetta) e sparì dalla distribuzione, salvo venir recuperato e restaurato nel 2007 e presentato a Venezia, nella sezione che si chiamava, fatidicamente, “Questi fantasmi”. (Vedo che c’è un libro dedicato al film del critico Alessandro Cuk, uscito l’anno scorso, La città dolente. Il cinema del confine orientale, e lo leggerò).
Di tutti i pensieri che la visione così ritardata ispira, uno è specialmente inquietante: che allora, nel 1949, dovette sembrare, a un fanatismo ordinario, troppo patriottico e indulgente con il passato prossimo fascista, e oggi, nel 2021, probabilmente sembra, a un opposto fanatismo ancora più ordinario, troppo indulgente con la spietatezza comunista.