Redipuglia, una veduta del Sacrario in una foto del 1952 (Archivio LaPresse) 

Piccola Posta

Terre di mezzo che sono spartiacque della storia, fra epopee e sconfitte

Adriano Sofri

Città o paesini, frazioni o territori più vasti, che hanno un doppio destino: aprirsi all’incontro e alla fusione, o diventare terra di nessuno, cioè campo di battaglia. Come fu per Trieste, per la Bisiacaria e soprattutto per Monfalcone

 

Il 30 giugno 1946 il rinato Giro d’Italia alla dodicesima tappa va da Rovigo a Trieste. A Pieris, frazione di San Canzian d’Isonzo, al confine con la zona occupata dagli angloamericani, la carovana trova la strada ostruita da bidoni e seminata di chiodi. I bloccatori gridano: “A Trieste non andate”, “Trieste non è Italia”. C’è un parapiglia, polizia italiana e americana, comunisti friulani, bisiachi, sloveni, tifosi, curiosi, Coppi e Bartali in disparte, il triestino Cottur e la sua Wilier decisi a continuare, la tappa viene interrotta. A Trieste vengono assaltati negozi sloveni, una libreria, una sede italo-slovena. Risponde uno sciopero generale di dodici giorni. Alla fine si contano 3 morti, 138 feriti e 400 arrestati.

 

Pochi italiani sanno che cos’è la Bisiacaria. Oggi è un territorio nella parte meridionale del Comune di Gorizia, “compreso tra l’Isonzo a est, il Carso a nord-est, il golfo di Trieste a sud-est”. Più o meno 70 mila persone. Che tuttavia parlano italiano, bisiaco, sloveno e friulano. (Anche bengalese, ora). Questo piccolo territorio misconosciuto fu prediletto però sia dalla Prima che dalla Seconda guerra mondiale. Andando indietro, la Bisiacaria era “otto comuni tra l’Isonzo e il Timavo. Una terra di mezzo tra la Serenissima e i domini degli Asburgo. Tra l’Italia e l’Austria, tra l’Italia e la Jugoslavia. Una terra di mezzo fra il Friuli e Trieste. Fra l’Adriatico e il Carso”. Le terre di mezzo hanno un doppio destino: di aprirsi all’incontro e alla fusione, o di diventare terra di nessuno, cioè campo di battaglia di tutti contro tutti. È quello che è successo. Alcuni nomi dei suoi luoghi lo ricordano: Redipuglia, cimitero di 100 mila caduti italiani e 14.500 austro-ungarici, o Ronchi che nel 1925 fu chiamata, nolente, dei Legionari (“nemmeno uno dei legionari di Fiume è di Ronchi”), o la Peteano della strategia della tensione, o la San Martino del Carso di Ungaretti, o Sagrado…  

 

Soprattutto Monfalcone. Ancora negli anni 70, quella del Pci nel cantiere navale è la sezione di fabbrica con più tesserati in Italia, oltre 700. Nel 2016, quando la Lega nord conquistò il comune, ci fu sgomento fra chi sapeva un po’ di storia. Nel 1907 la famiglia Cosulich vi aveva insediato il cantiere, i cui operai, provetti quanto alle capacità professionali, tennero un posto valoroso contro il fascismo e furono protagonisti di una vicissitudine tragica quando, dal 1946, passarono in 2.500 il confine con la Jugoslavia, spesso con le famiglie, confidando di unirsi alla costruzione del socialismo. Anche il loro cosiddetto controesodo ha sofferto un lungo silenzio, o almeno una reticenza. Perché furono sconfitti, certo: sgominati. E anche perché non trovarono nessuno che avesse interesse a rivendicarne la storia. Sanguinosamente perseguitati dal regime titoista per essersi schierati dalla parte del Cominform e della scomunica staliniana di Tito, al rientro imbarazzavano il Pci che ormai si era adeguato alla conciliazione fra Mosca e Belgrado. Quando gli ultimi superstiti dall’inferno di Goli Otok tornano, ormai nel 1956, tutti i documenti della repressione antistalinista in Jugoslavia che hanno custodito a costo della vita vengono bruciati da funzionari del Pci.

 

La loro epopea è una delle parti più appassionanti del libro di Piero Purich e di Andrej Marini da poco uscito per le edizioni Alegre, La farina dei partigiani. Una saga proletaria lunga un secolo”. Un romanzo storico, una storia appena romanzata – “un oggetto narrativo non identificato”, nella dizione dei Wu Ming – premurandosi di indicare esattamente i “plausibili” raccordi d’invenzione. Con un proposito dichiarato, di raggiungere così lettrici e lettori meno attratti da libri di storia. E una motivazione intima, di far rivivere nel racconto l’esperienza vissuta di persone dai destini accomunati lungo un secolo di ferro e di fuoco: la dinastia operaia Fontanot-Romano-Marini. Piero Purich è uno storico, autore di un testo fondamentale: Metamorfosi etniche. I cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria. 1914-1975, ed. KappaVu, Gorizia, 2014.

 

È nato a Trieste nel 1968 – un sessantottino – è musicista, fino a pochi anni fa si chiamava Purini, perché il cognome dei suoi era stato italianizzato dal fascismo, come tutti i nomi sloveni e delle altre minoranze – quasi tutti: i Cosulich, per esempio, non ne ebbero bisogno – poi è tornato all’origine. Andrej Marini è nato a Fiume nel 1948, figlio di quella emigrazione politica, quarta generazione di cantierini, carpentiere in ferro in giro per il mondo, come il Faussone della Chiave a stella. Poi si è rifermato in Bisiacaria, a fare il cuoco nella trattoria Al poeta di San Martino del Carso. La sua famiglia è la protagonista della storia, e specialmente i suoi genitori, Sidonia e Edi, lui cantierista provetto e comunista militante, sul quale nel 1944 una pattuglia di cosacchi apre il fuoco e butta via il corpo, che sarà incredibilmente recuperato e salvato. (Anche questo successe da quelle parti, che “i cosacchi”, georgiani, ceceni, circassi, mongoli, nemici di Stalin e arruolati dai nazisti, dall’estate del 1944, famiglie, carri, 6.000 cavalli e 50 cammelli, ricevettero in dote la Carnia tolta ai partigiani per farne il Kosakenland).

 

Più volte le sostituzioni di popolazione servirono a disarmare i conflitti sociali o nazionali. Dopo la Prima guerra, assegnata all’Italia la Venezia Giulia, lo stato liberale e poi brutalmente il fascismo fecero pulizia di maestre e maestri, ferrovieri, operai infidi “etnicamente” o politicamente, e li sostituirono con immigrati “regnicoli”: al cantiere di Monfalcone volle dire soprattutto pugliesi, e in particolare di Gallipoli, da opporre ai lavoratori locali organizzati e antifascisti. Lo stesso conflitto sarebbe stato acceso e fomentato dopo la Seconda guerra, quando toccò agli esuli istriani prendere il loro posto. (Oggi nella Monfalcone della Fincantieri e dei suoi appalti c’è la più alta percentuale di stranieri nella regione, e quasi la metà vengono dal Bangladesh). Furono in gran parte disoccupati meridionali gli squadristi di Trieste e della Bisiacaria impiegati nelle punizioni degli operai socialisti e poi comunisti. Ma le squadre del Crda di Monfalcone e dei cantieri Tosi di Taranto erano le uniche a rifiutare il saluto romano.

 

Gran libro. Un genere? Non so: libri preziosi che raccontano il secolo che abbiamo alle spalle (alle calcagna) attraverso una storia di famiglia: Andrea Olivieri, Una cosa oscura, senza pregio, Giorgio Fontana, Prima di noi, Sellerio, fra altri – e uno che uscirà e che ne racconta due, di secoli, di un nostro scrittore dei più forti.

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