Papa Francesco (Ansa)

Piccola Posta

Se in questa parte di mondo il Papa rischia di appartenere agli infedeli

Adriano Sofri

Lo schieramento bipolare nei riguardi di Francesco

 

Una serie di circostanze piuttosto invadenti mi inducono a chiedermi che cosa pensi del Papa Francesco. È difficile che un profano non abbia una sua opinione, o un suo sentimento, a proposito di una figura così spiccata, ma si tratta per lo più di un sentimento sommario – mi piace, non mi piace – e distante dal bipolarismo accanito degli specialisti. Nel caso di un non credente il giudizio è legato a considerazioni terrenissime, civili o psicologiche, e teologicamente e dottrinariamente inette e indifferenti. Simpatia per la sollecitudine verso i migranti e verso i poveri, per i richiami langeriani dell’enciclica Laudato si’. Solidarietà, appunto psicologica e sentimentale, per la tempesta del dubbio che deve attraversarlo, in queste ore, quanto al viaggio avventuroso (avventato?) in Iraq.

 

In questa circostanza, è chiaro, il coraggio non riguarda tanto i rischi fisici che corre Francesco quanto il rischio cui espone altri, i suoi stessi fedeli e quanti saranno coinvolti dalla sua visita. Il coraggio di un Papa infatti non è solo personale e fisico, è quello di un comandante che guida i suoi: in questo caso guida i suoi e tanti altri a una partecipazione che somiglia a un attacco azzardato – il Covid, il terrorismo. E lo fa mentre alla vigilia si addensano i motivi di allarme che farebbero recedere chi creda ai cattivi auspici: fino al nunzio apostolico, organizzatore principale del viaggio, risultato ieri positivo, e la nunziatura sequestrata dalla quarantena (santificata, diceva ieri un pio correttore automatico in una cronaca, non pago di una sanificazione). Sul Papa pesa la responsabilità per gli altri, le sue pecore e, visto che il viaggio ha anche un’ambiziosa parte interreligiosa, le pecore altrui.

 

Un problema simile riguardò il primo viaggio del Papa Wojtyla in Polonia, in cui la sua vera audacia si mostrò nel chiamare alla mobilitazione il suo popolo e metterlo a repentaglio, lasciando attonito un potere tracotante e di colpo impotente. I virologi ammoniscono ora il Papa: tu sei vaccinato, ma le folle che inevitabilmente ti si raduneranno attorno non lo sono – in Iraq la vaccinazione non è nemmeno cominciata. Dunque è qui che la decisione di Francesco, se andare o non andare – e ogni ora che passa rende più costoso non andare – spinge gli spettatori, credenti o no, a mettersi nei suoi panni: anche nei panni pesanti di un Papa si può mettersi, infatti. E un Papa potrebbe bensì trascinare temerariamente i suoi e chiunque altri sulla sua strada alla più pazza avventura, a una crociata di bambini, se si sentisse invaso dalla guida di Dio: ma da questo fanatismo Francesco sembra immune, a cominciare dal nome che ha preso. Al contrario, i più allarmati dal suo pontificato gli addebitano proprio un’oscillazione tutta terrena e un’eterogenesi inesorabile: una “democratizzazione” irruenta che approda continuamente alla conferma dell’assolutismo monarchico. (Riassumo così sommariamente il Matzuzzi di sabato qui, scusandomi).

 

Dunque: che cosa penso di Francesco. Ho appena letto il libro, grande e grosso, di Luciano Canfora su Concetto Marchesi, Il sovversivo. C.M. e il comunismo italiano, Laterza 2019, 992 pp. (ora un connesso Marchesi curato da Canfora è appena uscito da Sellerio, Perché sono comunista, ne parleremo). Là Canfora riferisce il confronto imprevedibilmente consensuale nell’aprile 1945 fra Benedetto Croce (quello del famoso “Perché non possiamo non dirci cristiani”, 1942) e il bolscevico-massone-azionista Marchesi per il quale “la Chiesa di Roma e il socialismo sono inconciliabili, ma inconciliabili non sono socialismo e cristianesimo”. Croce aveva concluso allora: “Noi che siamo fuori dalla Chiesa siamo non meno genuini cristiani di quelli che vi sono dentro”, e Marchesi mutua da Tommaso d’Aquino la formulazione: “Gli altri, quanti viviamo nel buio ma viviamo onestamente, siamo i cristiani partecipanti”. E parla dello “stimolo poderoso dato dal cristianesimo al perfezionamento morale… quell’apporto di bene che l’individuo aggiunge a compimento del suo dovere sociale”.

 

Quel singolare consenso è uno degli episodi in cui il cristianesimo che i non credenti trattano, rivendicano, addirittura con confidenza, come cosa propria – che appartiene anche a loro, o forse soprattutto a loro – sfida e spesso ingelosisce un cristianesimo credente e specialmente il cristianesimo cattolico costituito nella Chiesa. La pagina rievocata da Canfora mi ha colpito di più perché avevo appena letto un intervento di Carlo Ginzburg al Premio Luciano Russi, intitolato “Dio non è cattolico”. Il titolo perentorio non è di Ginzburg, naturalmente, ma del Papa Francesco a colloquio con Eugenio Scalfari nel 2013, occasione che eccitò parecchio rumore; ma a sua volta Francesco stava citando un altro gesuita, il cardinale Martini, che l’aveva pronunciata decenni prima. Non seguo qui l’affascinante percorso che porta Ginzburg sulle tracce di un altro gran gesuita, Matteo Ricci (1552-1610), e la sua presentazione ai cinesi di un cristianesimo in cui mancavano, per il momento, crocifissione e resurrezione. Ciò che non impedì a Benedetto XVI nel 2010 di descrivere la predicazione di Matteo Ricci “un caso singolare di felice sintesi fra l’annuncio del Vangelo e il dialogo con la cultura del popolo a cui lo si porta”.

 

 

Mi interessa usare questi riferimenti per concludere provvisoriamente che una versione dello schieramento bipolare nei riguardi di Francesco, e non la meno significativa, oppone i credenti, compresi quelli impliciti, che sentono un sincero scandalo per il suo supposto cedimento a una religiosità universale e generica e compromissoria, ai non credenti, che lo figurano quasi affine all’idea che non si possa non dirsi laicamente cristiani, di cui “Dio non è cattolico” è a un passo dall’essere sinonimo. Si capisce che, essendo la vita contraddittoria, e la vita di un Papa a maggior ragione, gli uni e gli altri siano di volta in volta rallegrati o infastiditi da accenti di Francesco che curvino di qua o di là dalla tradizione e dalla supposta ortodossia. Ma insomma, almeno in questa parte del mondo, il Papa Francesco rischia di appartenere di più agli infedeli che ai fedeli, e di passare alla storia come colui che alla testa della Chiesa finì per ratificare un ecumenismo sospettamente agnostico. Così oggi, alla vigilia di un viaggio drammatico in cui i fedeli superstiti della culla del cristianesimo si attendono il risarcimento dovuto alla loro peculiare sofferenza e umiliazione, e il capo della Chiesa romana incontrerà la massima autorità di fatto della fede sciita, al Sistani, più che novantenne e anche lui appena positivo al Covid, in nome del padre comune Abramo.

 

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