Renato Guttuso, ritratto di Pablo Neruda

piccola posta

Salvatore Settis e il rapporto tra continuità e rottura nell'arte

Adriano Sofri

L'ultimo saggio dello storico: un tentativo di definizione della tradizione artistica

Il mio amico Roberto Barni, scultore e pittore, riempie questo tempo solitario lavorando, ascoltando madrigali e scrivendo pensieri che ripercorrono la sua ispirazione costante: “Penso che gli italiani soffrano della loro memoria corta. Non conoscono le dimensioni dei torti subiti e neppure sono capaci di ammettere le loro colpe. E ancora oggi non sono in grado di valutare il loro presente, e quando hanno guardato al passato hanno sbagliato passato. Gli italiani devono crearsi un grande patrimonio di memoria per riprendere la strada ambiziosa della conoscenza e dell’arte”.

 

Barni detesta l’effimero e perciò, dice, si rallegra dell’attimo. Ciascuno di noi si è misurato variamente, qualunque strada abbia preso, col rapporto fra continuità e rottura, e magari riequilibrando il peso rispettivo secondo i tempi comuni, il proprio tempo personale, e la lezione delle cose. Specialmente chi si sia provato alla politica, almeno fino a quando conservazione e innovazione, e la loro iperbole, rivoluzione e reazione, sembravano segnarne l’orizzonte: oggi occupato da grottesche parodie della rottura, roboanti e a priori pentite. Uno dei nomi della rottura trasgressiva è iconoclastia: nell’arte il proclama di liquidazione del passato ha accompagnato e spesso preceduto quello politico, salvo subirne i contraccolpi. Salvatore Settis ha appena pubblicato una serie di “Incursioni. L’arte contemporanea e la tradizione artistica” (Feltrinelli, pp. 361, illustrate dentro e fuori dal testo). Per definire la tradizione artistica ha messo insieme due risposte complementari, quelle di Julius Schlosser e di Aby Warburg, “della stessa generazione di Benedetto Croce”: anzi, nati tutti e tre nello stesso 1866. “Non per proporre un nostalgico omaggio all’età in cui quelle idee presero forma… ‘Tradizione non è adorare la cenere, ma custodire il fuoco’ (l’aforisma è attribuito a Gustav Mahler). Ma custodire il fuoco non basta: perché ci scaldi ancora dobbiamo alimentarlo con la legna che noi stessi avremo raccolto ogni giorno nel bosco”.

 

Settis elenca una ventina di vocaboli attraverso i quali si è cercato di dissimulare o anestetizzare il legame fra l’arte contemporanea e la lunga durata della pratica artistica, per risparmiarsi l’imbarazzo del nome: “la tradizione artistica, appunto”. I capitoli lungo i quali Settis compie le sue incursioni – metà straniero metà artista, diciamo, che ruba quasi quanto dà – sono un’esca adeguata alla curiosità di lettrici e lettori: “Marcel Duchamp si taglia la testa”, “Arte e delitto. Guttuso sulla morte di Neruda”, “Ingmar Bergman: archeologia del Rito”, “Mimmo Jodice fotografa gli antichi”, “La lingua madre di Tullio Pericoli” (da me prediletto, ritratti come paesaggi marchigiani e viceversa), “Icone sovietiche, materia dei sogni” (in cui scavi e disseppellimenti di Grisha Bruskin rispondono in anticipo alla domanda impellente: Che cosa fare dei monumenti sconfessati?), “Giuseppe Penone: scolpire il tempo”, “Bill Viola: i conti con l’arte” (quello per il quale il tema è più ovvio, e si rivela più sorprendente), “William Kentridge: la memoria e la città” (prezioso per chi come me mancò di vedere in tempo i Trionfi e lamenti), “Dana Schutz: Leda in ceppi”. 

 

In fondo al saggio su Kendridge Settis cita un brano di Musil sui Monumenti, precedendo (non solo Musil, anche lui, Settis) l’assalto quasi planetario dell’anno scorso. “La cosa più strana dei monumenti è che non si notano affatto. Nulla al mondo è più invisibile. Non c’è dubbio che sono fatti per essere visti, anzi per attirare l’attenzione; ma nello stesso tempo hanno qualcosa che li rende, per così dire, impermeabili… Per farsi notare, i monumenti dovrebbero darsi da fare come tutti noi”. Ogni tanto succede.

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