Piccola posta
Pollock e Rothko, gli opposti che per contrapporsi si devono somigliare
Domande attorno al libro di Gregorio Botta. Horror vacui e amor vacui: l'armonia dei contrari che si attraggono, e si ritrovano fino agli affreschi del Beato Angelico
In un passo Gregorio Botta ricorda Herbert Ferber, “un pittore che essendo anche dentista poteva permettersi di invitare a cena” colleghi affamati come Pollock o Rothko. Così mi sono di nuovo domandato se Botta direbbe di sé “un artista che essendo anche giornalista…” o, alla rovescia, “un giornalista che, essendo anche un artista…”. Avendolo conosciuto in ambedue le vesti, e avendoci cenato sopra, ho letto il suo appassionato libretto Einaudi su Pollock e Rothko. Il gesto e il respiro, cercandoci anche indizi circa la sua vocazione vera. Il giornalista (vicedirettore di Repubblica, inventore di sue pagine culturali) è qui messo da parte, salva una tipica prontezza di riflessi sugli episodi drammatici o bizzarri delle storie ripercorse, e anche le rivelazioni di sé artista fanno molto sobriamente capolino.
Forse dove, a proposito di Pollock che dipinge su una lastra orizzontale di vetro così che il filmmaker Hans Namuth lo possa riprendere sdraiato lì sotto (vedi YouTube), Botta scrive del “dipingere direttamente sulla trasparenza. Ma l’intuizione di Pollock si ferma lì. Saranno altri artisti, in anni futuri, a realizzare il sogno”, e ci mette anche sé, vetri e alabastri. O quando riconosce che, alla fine della scrittura, “un po’ di Pollock può abitare in casa del più accanito dei rothkiani” – a casa sua. Il libro, e la collana che inaugura, si giocano sulla coppia di opposti. Ma ogni volta che si sceglie questa chiave si ammette che cose e persone, per contrapporsi in modo interessante, devono somigliarsi. Così le grandi antitesi, il rosso e il nero, Ettore e Achille, il giorno e la notte, Dostoevskij e Tolstoi, Adamo ed Eva, costringono prima di tutto a vedere ciò che accomuna. Anzi, penso che al nostro punto riprendere il filo degli opposti serva soprattutto a cercarci dentro le somiglianze, le simpatie, i contagi.
Pollock e Rothko, all’origine una specie di cowboy del Wyoming e un ebreo europeo orientale, animato uno dall’horror vacui l’altro dall’amor vacui, uno che grida forte l’altro che sussurra fino al silenzio, hanno parecchio in comune, oltre che gli anni e la New York che strappa la palma a Parigi, oltre all’alcol e alle morti tragiche. Nei loro punti di arrivo, sono agli antipodi. Il dripping di Pollock – un incidente, all’inizio, pittura che cola, sgocciola, o l’ipotesi dell’imbianchino vicino di casa, che avesse invidiato lo straccio col quale si puliva le mani (noi profani usciamo dalla visita a uno studio di pittore progettando di rubargli la tavolozza). E le mani e mani di colore di Rothko, che passava più tempo a guardarli, i quadri, che a dipingerli.
Le immagini care a Botta: che il Dripper Pollock ricordasse il gesto del padre contadino che seminava, e il tonale Rothko accostasse i rettangoli di colore come sabbia e mare si sovrappongono sulla battigia – tutto è fermo, ma tutto si muove… Botta tiene al momento e al luogo in cui gli piace che tutto sia cominciato: la cella numero 3 del Convento di San Marco affrescata dall’Angelico. Ho insegnato per parecchi anni all’Accademia, che sta sull’angolo della piazza, e sono stato di casa nel convento museo, privilegio incomparabile. Gli affreschi del Beato Angelico nelle celle erano esclusivamente riservati a se stesso e alla clausura del singolo domenicano, inaudito complemento del suo voto di povertà. L’affresco della cella 3 è un’Annunciazione, come quella dipinta sul corridoio dirimpetto alla scala che conduce al primo piano. Meravigliose ambedue, nei pochi metri che separano le due Annunciazioni passa una differenza d’epoca.
Riguardatele – basta un clic, avverte Botta – e leggetene l’illustrazione comparativa, per esempio in un articolo di Melania Mazzucco su Repubblica del 13 gennaio 2013, “Il Museo del mondo”, o nell’articolo-intervista di Fulvio Paloscia a Botta, sempre su Repubblica, 17 novembre 2020, “Rothko e Pollock, il filo che li unisce al Beato Angelico”. Non Pollock, ma Rothko sì visitò ripetutamente San Marco restandone colpito. Fu colpito anche dal verso famoso della poesia di Robert Browning, 1855, dedicata ad Andrea del Sarto, in cui il pittore “senza errori” avverte: “Well, less is more, Lucretia”. Ridotta all’essenziale, la differenza fra le due Annunciazioni dell’Angelico è questa: nella cella il di più è tolto, la magnificenza del giardino e dell’architettura, la spartizione tra le due figure, e anche, mi pare, il movimento. La scena si è fermata, la cosa è già avvenuta, stagliata sul biancore del muro. (E’ perfino possibile che l’affresco non sia stato completato, ipotesi invidiosa…). Rothko ha proceduto per quella strada: meno è più. (Meglio meno, disse un altro, e magari l’avesse seguito). Chissà se Rothko fece anche quel po’ di passi che da San Marco l’avrebbero portato, in via Cavour 69, al Chiostro dello Scalzo, che proprio Andrea del Sarto affrescò meravigliosamente con la tecnica del monocromo – forse perché i committenti volevano risparmiare, e Rothko se ne intendeva.