(Ansa)

Piccola posta

Dentro e fuori dalla Cisgiordania tutti guardano Fauda

Adriano Sofri

La fiction di Netflix sul terrore di vicinato tra israeliani e palestinesi è una fonte dirompente di conoscenza reciproca

Francesco Giuseppe era un uomo all’antica, e anch’io. Lui si era invaghito del telegrafo, spediva telegrammi. Io, nel ritiro pandemico, ho scoperto Netflix e le serie. Come succede con le conversioni tardive, ci metto dello zelo. Lo stesso che in alcuni momenti misi nella passione per il melodramma. I libri, i grandi libri, quelli cui sono devoto, sono un’altra cosa: opere-mondo, ma di un solo autore.

 

Mio fratello passa la giornata a studiare e scrivere, e poi, a notte avanzata, rilegge i grandi libri. Ha appena riletto “I Buddenbrook”, tutto il Graham Greene Sellerio, “La montagna incantata”, ora ha attaccato “L’uomo senza qualità”. Io ho guardato di seguito “Downton Abbey”, “The Crown”, “Shtisel” (la più bella, nelle prime parti, prima di stancarsi), “Unorthodox” e ora “Fauda”.

 

“Fauda”, sapete, è la storia del terrore di vicinato israelo-palestinese.

 

Marco Pannella diceva che quando la voglia di guerra rischia di prevalere bisogna bombardare la popolazione di informazioni, di conoscenze. Mi sentirei di dire che “Fauda” sia la cosa che più si avvicina al bombardamento di conoscenza reciproca che auspicava Marco. O piuttosto, dal momento che si tratta pur sempre di una produzione israeliana e non (ancora) di una coproduzione israelo-palestinese, “Fauda” è la cosa che meno se ne allontana. Pur con qualche squilibrio, la storia mostra che tutti hanno le loro buone ragioni, e tutti le perseguono da farabutti. Come nelle tragedie. Se è vero che “Fauda” è guardata con altrettanta passione dalle due parti e nel resto del mondo arabo, chissà che un giorno si possa dire che una serie di Netflix abbia giovato ai contendenti molto più che una battaglia vinta o perduta.

 

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