piccola posta
C'è un'estradizione che incombe sui giusti e sugli ingiusti
Tutti gli autori di violenze politiche hanno rispettato la condizione posta dalla dottrina Mitterrand: la rinuncia alla violenza. Cioè il fine più alto che la giustizia persegua
Chiudiamo la settimana italo-francese. Avevo fatto notare che la dizione grossista “ex terroristi” era indebita. Sono stato ascoltato. Tutti (tutti: ho raccolto le riproduzioni) i quotidiani maggiori di ieri intitolavano: “terroristi”. Senza più ex. “Economia, Orazio, economia” (Amleto, atto primo, scena seconda).
In Francia un certo numero di personalità ha pubblicato una lettera collettiva che ho apprezzato per la sua argomentazione di fondo. “L’espressa condizione”, dice, alla quale quegli autori di violenze politiche negli anni 70 “sono stati accolti nel nostro paese, era di abbandonare ogni attività illegale… Quarant’anni fa diverse decine di persone sono uscite dalla clandestinità, hanno deposto le armi, hanno fatto esaminare i loro fascicoli dalle massime autorità dei servizi di intelligence, polizia e giustizia francesi… Tutti hanno mantenuto il loro impegno a rinunciare alla violenza”. E’ l’argomento per me decisivo, quello che mi fa auspicare il riconoscimento di una partita chiusa con persone dalle quali a suo tempo mi separò un’avversione radicale. Ho provato, come potevo e senza indiscrezione, a informarmi sulla vita di alcune di queste persone. I giornali, benevoli o nemici, avrebbero potuto farlo. Hanno preferito riprodurre a oltranza foto segnaletiche di un’altra età, altrettanti rovesciati ritratti di Dorian Gray.
Ho visto un frammento televisivo in cui Corrado Formigli chiedeva a Mario Calabresi che cosa pensasse della mia opinione (non riguardava Pietrostefani) che “la cosiddetta dottrina Mitterrand ha realizzato il fine più ambizioso e solenne che la giustizia persegua: il ripudio sincero della violenza da parte dei suoi autori, e così, con la loro restituzione civile, la sicurezza della comunità. La Francia repubblicana è riuscita dove il carcere fallisce metodicamente”. Calabresi l’ha respinta dicendo che, se così fosse, “potremmo prendere un omicida di oggi, anziché arrestarlo e metterlo in carcere, mandarlo in una bella isola siciliana a vivere, non compie più delitti, quindi abbiamo dimostrato che l’isola siciliana ha fatto bene alla sua vita”. Con la migliore volontà, non trovo alcuna pertinenza nel paragone.
Alla Francia e ai suoi appelli si rimprovera soprattutto di aver fatto passare l’Italia come un paese in cui l’amministrazione della giustizia di quegli anni è stata distorta da leggi speciali e sospensione dei diritti. Non è un tema del quale io sia competente: distorsioni, forzature, perfino documentati ricorsi a torture, ci furono. Altri sono tornati a discuterne in questi giorni, con miglior conoscenza di causa. Io non direi che l’Italia non fosse democratica, perché sono convinto che la democrazia non sia una condizione statica, bensì una tensione permanente fra forze diverse e anche opposte. Nell’Italia del 12 dicembre quella tensione si fece estrema, e lo restò per alcuni anni successivi. Ma io ho, e provai a sollevarlo già più di quarant’anni fa, un altro argomento a sostegno della revisione della giustizia di allora, un argomento non giuridico ma tragicamente psicologico. Un gran numero degli imputati per violenze politiche o per terrorismo parteciparono ai processi sentendosi ancora, anzi di più per l’esposizione in cui si trovavano, militanti della loro rivoluzione e negatori sprezzanti della giustizia dei tribunali. Questa oltranza raggiunse episodi terribili come a Torino nel 1977, quando gli imputati brigatisti, alla vigilia del processo, revocarono i difensori di fiducia e minacciarono di morte qualunque avvocato avesse accettato di difenderli d’ufficio. Il presidente dell’Ordine torinese, Fulvio Croce, designato d’ufficio a difenderli, fu assassinato da un gruppo di brigatisti (il processo si sarebbe aperto solo un anno dopo, quando Adelaide Aglietta, dopo 134 rinunce di cittadini estratti, accettò di far parte della giuria popolare). Fu il caso estremo di una situazione ripetuta: gli imputati rifiutavano di difendersi, denunciavano la giustizia “borghese”. Era una loro esclusiva responsabilità, naturalmente, del resto platealmente rivendicata. Ma la conseguenza obiettiva fu lo stravolgimento dello svolgimento dei processi, delle sentenze e delle pene che deriva dall’assenza della difesa. A distanza di tempo, quando quell’atteggiamento era caduto se non per pochi cosiddetti “irriducibili”, non c’era una ragione per rivedere, non più nei tribunali, ma in Parlamento, quel retaggio?
Qualcuno oggi riparla di amnistia. Non se ne farà niente, il puntiglio è più inesorabile. E proprio il troppo tempo che è passato ha allontanato definitivamente la prospettiva di una misura politica. E ha avvicinato, nonostante la longevità contemporanea, così sottovalutata dai giovani di allora, la soluzione biologica della questione. C’è un’estradizione che incombe sui giusti e sugli ingiusti.