piccola posta
Note all'intervento di Mattarella sugli "anni di piombo"
La narrazione sugli anni delle stragi continua a essere terreno di scontro. Una "dottrina Mitterrand" all'italiana assicura l'immunità ai veri strateghi, ma non risparmia gli innocenti
Domenica 9 maggio il presidente Mattarella è intervenuto ampiamente, a colloquio col direttore di Repubblica, sugli “anni di piombo”. Dal 2007 il 9 maggio, il giorno in cui, nel 1978, fu ucciso Aldo Moro, 55 giorni dopo il rapimento e l’uccisione della sua scorta, è il Giorno della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi. (In quello stesso giorno fu ucciso a Cinisi Peppino Impastato). Si era discusso se consacrare alla memoria il 9 maggio o il 12 dicembre, il giorno della strage di Piazza Fontana, nel 1969. La scelta era impegnativa, il 12 dicembre suonava come una fatale data d’inizio, e poteva implicare una genealogia del ricorso a una violenza senza precedenti nell’Italia repubblicana – un precedente c’era, remoto, ancora a ridosso della guerra, a Portella della Ginestra 1947. Era impegnativo, il 12 dicembre, perché di quella strage è provata la responsabilità esecutiva dei neonazisti di Ordine Nuovo veneto, così come l’attività di depistaggio di appartenenti a tutti i corpi di sicurezza dello Stato, dal servizio segreto militare all’Arma dei carabinieri, dalla polizia al servizio civile. E un problema aperto quanto ai mandanti. A quell’impegno si preferì sottrarsi, e designare, all’altro capo della storia, per così dire, il rapimento di Moro, che non segnò affatto la fine del terrorismo “di sinistra”, ma segnò certo il culmine del suo forsennato rincaro nell’immaginato cuore dello Stato.
A proposito dell’alternativa fra le due date simboliche, osservo intanto che Lotta Continua, il movimento che visse in modo organizzato dal ’69 allo scioglimento nel 1976, e sopravvisse per qualche anno come un giornale quotidiano, può con pochi altri ascrivere a suo merito di essersi opposta con ogni forza fin dal primo momento alla oscena montatura contro gli anarchici nel 12 dicembre, e di aver fatto altrettanto nove anni dopo contro gli autori del sequestro di Moro e la minaccia, poi realizzata, di ucciderlo. La nostra posizione di allora, strenuamente impegnata alla salvezza della vita di Moro – l’appello “di Lotta Continua e dei vescovi” – non fece alcuna concessione alle motivazioni brigatiste. (C’è una differenza, infatti, fra l’essere stati nemici intransigenti degli autori di quelle azioni al tempo in cui erano compiute, e il proclamarsene nemici implacabili a mezzo secolo di distanza). Nel complesso discorso di Mattarella, la parte dello Stato golpista, provocatrice e depistatrice è molto sobriamente accennata: “trame oscure”, “impreparazione, talvolta infedeltà”. Non dubito che, fuori dall’occasione annuale, il Presidente della Repubblica ne abbia un sentimento più spazioso.
Ha anche rinnovato, il Presidente, il giudizio positivo sul ’68, riscattato dall’opinione che vuole farne l’incubatore della violenza eversiva e del terrorismo. Giustissimo, ma anche qui c’è uno svolgimento. Dopo le manifestazioni milanesi del 12 dicembre 1970, in cui muore colpito da un candelotto lo studente-lavoratore Saverio Saltarelli, il prefetto Libero Mazza compila il suo famoso “Rapporto” sulle “formazioni estremistiche, Movimento Studentesco, Lotta Continua, Avanguardia Operaia”…, così descrivendole: “Gli appartenenti a tali formazioni, che sino a qualche anno fa erano poche migliaia, ammontano oggi a circa ventimila unità…”, e chiedendone lo scioglimento.
L’arresto di un giorno di nove condannati italiani in Francia, e l’inaugurazione di una (ulteriore, per parecchi di loro) pratica di estradizione, ha occupato una parte ingente nella memoria di domenica. E una parte ingente ha tenuto la denuncia di Mattarella delle “posizioni inaccettabili di alcuni intellettuali dell’epoca”: “Oggi non si può neanche ipotizzare l’idea dell’equiparazione tra lo Stato e le Brigate Rosse, senza avvertire incredulità e sdegno, ma neppure allora era legittimo farlo”. Questo punto sembra richiamare il motto del 1978, “Né con le BR né con lo Stato”, che fu variamente imputato, fra gli altri, a Eugenio Montale, Alberto Moravia e Leonardo Sciascia. Quest’ultimo protestò di non averlo mai detto, e chiarì che caso mai la sua obiezione era a “questo” Stato. Ho recuperato l’origine dello slogan, che il quotidiano di LC si limitò a raccogliere, come il Manifesto, da un Comitato di portuali genovesi che intitolò così un proprio comunicato sul rapimento di Moro.
Tuttavia dalle parole di Mattarella ricavo l’impressione che non si tratti tanto di quella polemica del 1978 (il processo torinese alle BR con la sequela di giudici popolari sorteggiati che se ne ritiravano fino alla decisione coraggiosa di Adelaide Aglietta, la discussione su “fermezza” e “trattativa” per Moro) quanto di un’altra occasione, divenuta abituale e quasi sempre spogliata della sua motivazione: il famoso appello delle circa 800 personalità di spicco della cultura e dell’arte contro la ricusazione del giudice Biotti da parte della difesa di Luigi Calabresi nel processo da lui intentato a Lotta Continua. A Biotti il difensore di Calabresi, suo amico personale, imputava di avergli manifestato la sua convinzione della colpevolezza di Calabresi e di aver deciso la riesumazione del cadavere di Pinelli. (Anni dopo, nel 1977, Carlo Biotti fu totalmente scagionato, in tempo per morire nel disinteresse generale).
Aggiungo un’ultima, provvisoria, notazione personale. Nel processo per l’omicidio Calabresi (assente l’imputazione di terrorismo, ma il linguaggio comune se ne fotte del linguaggio con cui si cautelano i tribunali) ci sono condannati che si dichiarano non colpevoli. Mattarella li ha citati, evocando la “piena verità degli assassini”. Io, per esempio, che mi so e mi dichiaro innocente: dunque mi si chiede di confessare?
Ancora domenica Fortunato Zinni, uno dei sopravvissuti alla bomba di Piazza Fontana, ha ripercorso a sua volta la storia del Giorno della memoria, e ha ricordato fra l’altro: “Ai funerali delle Vittime, il 15 dicembre 1969 non c’era il Presidente della Repubblica e in cinquantuno anni nessun Presidente della Repubblica è mai venuto in Piazza Fontana e nel cortile della Questura di Milano a rendere omaggio alle diciotto vittime innocenti /17 nella banca, il diciottesimo Pino Pinelli/, alla memoria di Luigi Passera e Francesca Dendena che con i familiari delle vittime della strage e con la famiglia Pinelli, hanno lottato per ottenere verità e giustizia /…/ Una sorta di ‘dottrina Mitterrand’ all’italiana, da cinquant’anni, assicura l’immunità agli strateghi dello stragismo”