piccola posta
Governare l'Ilva è impossibile. Chiuderla, un'impresa formidabile
Una città confiscata da una fabbrica e una fabbrica maledetta dalla città. A Taranto è ora di mettere persone di buona volontà a riparare il territorio e gli spiriti esausti
Quando mi immersi nella Taranto offesa dell’Ilva, mi convinsi di alcune cose. Che quella fabbrica fosse governata con metodi di gravissima prepotenza, e quasi coloniali. Che della salute, dentro e fuori, si facesse nessun conto. Che nel tempo (lunghissimo, dall’Italsider) i rapporti fra i padroni e i loro maggiordomi e i prelati e i rappresentanti della città, della provincia e della regione, e giornalisti e sindacalisti…, si fossero fatti così volgarmente confidenziali, pseudoamichevoli, e ricattatori da non lasciare scampo a nessuno, perché niente toglie la libertà come il cedere alla lunga abitudine dell’arrangiarsi, promettere, chiudere un occhio, dilazionare, che compromette più della brutale corruzione.
Quando non si poteva dire di sì, come si faceva a dire di no… Non è un caso che la materia più incandescente e insieme più equivoca stia nelle conversazioni telefoniche – anche persone perbene come Vendola e Assennato ne furono toccate. Non era quel genere di intercettazioni che ha minato tante altre brutte storie. Erano le conversazioni di prima, quando forse non si era sicuri di essere intercettati, ma si era ancora sicuri di essere impuniti, le conversazioni dell’andazzo che si trascina. Oltretutto, quel cameratismo triviale era affare di uomini, di maschi. Lingua di caserma. Nella scena antagonista della fabbrica e della città, l’acciaio era maschile e la città femminile, e lo mostrò in quel clamoroso sequestro del 2012, di una giudice, Patrizia Todisco, che stette nell’occhio del ciclone e, avesse ragione o no, non disse una parola allora né poi. E il simbolismo si è completato nella giuria tutta femminile di lunedì.
Scoppiato il bubbone, diossina e cittadini-e-lavoratori-liberi-e-pensanti, era già tardi per divincolarsi da quella pania, e il cinismo dei padroni, la rozzezza dei “fiduciari”, l’imbarazzo dei politici, erano diventati materia giudiziaria. Ci sono opinioni e sentimenti opposti su questo colossale groviglio, e c’è una città confiscata da una fabbrica e una fabbrica maledetta da una città – e la solfa sulla produzione nazionale strategica dell’acciaio, dopo la lezione di Bagnoli, dopo la liquidazione degli acciai sopraffini di Piombino, dopo la conservazione oltranzista della Ferriera triestina per raschiarne il fondo e avvelenare le case… La cosa fondamentale che avevo capito dopo quell’immersione tarantina era l’inutilità totale di chiedersi se fosse conveniente e responsabile chiudere l’Ilva o tenerla aperta e come: perché nessuno era né sarebbe più stato in grado di governarla.
Non si è fatto che perdere tempo, denaro, dignità, pazienza, sino ad arrivare finalmente al grande processo, il potlatch di Taranto e del suo largo entroterra e dell’Italia pubblica e privata. Il falò delle vanità. Era solo il primo grado, ce ne saranno altri, giudiziari, e probabilmente metteranno qualche toppa al destino delle persone. Quanto alla vita civile, questo primo grado merita di essere l’ultimo, e mettere umilmente persone di buona volontà e di buona capacità a riparare pazientemente il territorio e gli spiriti esausti, e a spazzare i sepolcri e i balconi dalla polvere rossa e nera. Non torneranno olivi e pecore, certo, né si costruiranno giardini d’infanzia sopra sette strati di veleni. Riparare, è un gran programma industriale. Chiudere è una impresa formidabile, per i sinceri fautori delle grandi opere.