piccola posta
La giustizia decadente
Dall’insegnamento originario di Calamandrei, alla fine del garantismo con Mani Pulite negli anni 90. Paolo Borgna e Jacopo Rosatelli tracciano una storia della crisi in cui è piombata la magistratura, forse priva di redenzione, nel libro "Una fragile indipendenza"
Leggiamola allora questa “Conversazione intorno alla magistratura” tra Paolo Borgna e Jacopo Rosatelli, “Una fragile indipendenza” (SEB27, Torino, pp. 131, con una prefazione di Enrico Deaglio, 15 euro). Borgna ha 67 anni, è cattolico di formazione e azionista per vocazione, è stato avvocato poi magistrato – pm, giudice, pm… – dal 1981 a quest’anno. E’ stato anche storico, biografo di alcuni dei suoi personaggi ideali, Alessandro Galante Garrone, “Il mite giacobino”, in conversazione, e “Una vita migliore”, e Giorgio Agosti, “Il coraggio dei giorni grigi”. Rosatelli ha 40 anni, è ricercatore e insegnante, scrive sul manifesto, aveva conversato anche con Gianrico Carofiglio, “Con i piedi nel fango” (2018), in quel caso a proposito della politica. Ora la politica è spacciata, la magistratura anche. Abbastanza, diciamo. Abbastanza da insinuare il desiderio di una ricusazione universale.
Quando le cose prendono quella china, non si fermano. Il libro di Borgna aveva fatto in tempo a registrare il caso Palamara, e già il caso Amara prendeva il banco. E non c’è giorno senza la sua pena: il caso Verbania, il caso Ilva, il caso referendum Salvini-radicali… Sicché anche di fronte a un libro onesto e sincero come quello di Borgna e Rosatelli ci si chiede se per essere all’altezza (altezza…) non bisogni stare nel novero dei mascalzoni-pentiti, dei Palamara e degli Amara: quelli che peccarono fortiter, e possono raccontarla fortius. I testimoni dalla coscienza retta, i Borgna, i Fassone – i Galante Garrone – sono misurati, e le cose sono andate oltre la misura.
Nella misura originaria, ricorda Borgna, stava il modello ottocentesco di magistrato secondo Calamandrei: “Quello che siede nell’ultimo angolo dell’unica trattoria del paesino dove esercita le funzioni di pretore avendo come unica commensale la propria indipendenza”. Negli anni iniziali suoi era ancora viva la passione politica di una generazione che aveva scoperto, e se ne era scandalizzata (lo scandalo è degli innocenti), che la giustizia, come la scuola, era “di classe”; delle fabbriche e dei campi si era saputo sempre. E si era proposta di ricordarsene nel suo esercizio, e poi, come succede delle buone intenzioni, di spingersi a raddrizzarne il torto. “Se avevi seguito vicende come quelle di Pietro Valpreda, anarchico, accusato ingiustamente della strage di piazza Fontana e detenuto in carcere per tre anni, entravi direi quasi automaticamente in Md”. L’itinerario di Magistratura democratica, specialmente, che già negli anni 80 dovette ripiegare sul garantismo. Allora le correnti avevano consentito un dialogo critico con la società civile. “Senza il pungolo della critica, anzi con un coro sempre più plaudente attorno, fa capolino la hybris: la tracotanza di chi si sente investito di un ruolo etico, e da questo ruolo si fa travolgere”.
All’inizio degli anni 90 il gran trapasso: il garantismo era ancora legato alla sinistra, benché una conversione ecologista si fosse affacciata, anche e forse soprattutto nell’operato di alcuni magistrati, e con lei e col femminismo, se non un superamento, almeno una salutare moltiplicazione delle chiavi di interpretazione della storia e della società. Soffiò ora il vento della mera legalità, della persecuzione dei corrotti mutata in lotta alla corruzione, dei magistrati accusatori mutati in eroi popolari. Con due poli: la procura di Milano, e i tribunali siciliani, quelli di Falcone e di Borsellino – solo dopo che furono trucidati. Allora il verbo lottare diventò transitivo, un sicilianismo: lottare la mafia. I giovani desiderarono di diventare magistrati, e si dimenticarono di distinguere fra Milano e Palermo, o Trapani. La differenza era enorme, a Milano ci si presentava alle telecamere e si faceva cadere il governo, a Palermo e a Trapani si veniva bocciati, da vivi, nelle proprie aspirazioni di carriera (ci fu un tramite nella trasferta siciliana di Ilda Boccassini, un’eccezione). C’era “il popolo dei fax”. “Una legittimazione impensabile nella testa dei costituenti – dice Borgna – altrimenti avrebbero scritto diversamente la Costituzione”.
Oggi io (che guardo alla giustizia dal lato opposto del cannocchiale) penso a Mani Pulite come al primo rintocco della decadenza della magistratura. Guardo all’inquadratura famosa dei quattro – Borrelli un po’ indietro, a compromettersi di meno – come a una premessa, i cui esiti ci stanno sotto gli occhi. Di Pietro, l’avventura più imbarazzante, di cui la mattina dopo lei si chiede: Com’è stato possibile? Lei è l’Italia. Colombo, eroe per caso, poi finalmente impegnato a sostenere superfluità e danno del carcere. E Piercamillo Davigo, nel punto in cui un collega in diretta tv, maramaldo, non si perita di dirlo Pieranguillo. Davigo, il “contabile ultraconservatore” (Borgna) che richiesto dei diciotto processi e diciotto assoluzioni di Bassolino a Napoli, che costarono a quel già sindaco e presidente di regione e militante sincero la carriera e il sonno, risponde: “Io ne ho avuti diciannove a Brescia”, e non gli costarono niente, lo fecero crescere di sella, e ancora si querela di essere stato pensionato all’età della pensione. Gli eroi son quasi tutti vecchi e bruttini, e le fotografie accostate sono implacabili – quelle dei morti ammazzati no, ma non è un caso. Quell’apoteosi della procura di Milano aveva in grembo Silvio Berlusconi e, subito dopo – gli intervalli furono solo dignitose resistenze – Beppe Grillo.
E pur distinguendo radicalmente fra Craxi, “un gigante della politica della Prima Repubblica”, della politique d’abord, che fu insieme il suo limite fatale, e Berlusconi, Borgna osserva: “Lasciami fare un’ipotesi… Se a un leader storico del Pci, uno amato come lo è stato Pietro Ingrao, fosse capitato di finire sotto processo e poi assolto il numero di volte che è toccato a Berlusconi, la reazione critica, allora, non sarebbe stata diversa?”.
Va da sé che io non sono un recensore. Del mio processo famoso – Borgna ricorda che fu “precedente a Mani Pulite” – so che fu anche una prova generale di Mani Pulite. E chi non lo sa vedere non mi imputi una sopravvalutazione: ai miei occhi l’ovvia constatazione lo rende solo più volgare. A ogni passo trovo figure note, a volte care – Francesco Misiani, per esempio, Giovanni Palombarini, Salvatore Mannuzzu…
Borgna non si fa illusioni. “Io non credo alla riformabilità di questo sistema… Quando sento i magistrati che, a ogni riprova del fallimento dell’autogoverno, invocano una ‘rifondazione’, un ‘rilancio’, mi vengono in mente quei debitori che, allo scadere di una cambiale, chiedono continui rinnovi, aumentando sempre più gli interessi”. Del Csm, preferirebbe che magistrati e membri laici fossero metà e metà, i laici nominati per un terzo dal Parlamento, un terzo dal presidente della Repubblica e un terzo dalla Consulta. E’ contrario al sorteggio, e anche Rosatelli, che diffida in generale di tutte le misure che indeboliscono o aboliscono i corpi intermedi, comprese le correnti benintese; del resto ci fu, senza successo, una generosa corrente di sorteggisti… Il sorteggio di secondo grado, fra gli eletti da cui scegliere i membri effettivi, Borgna lo prenderebbe in considerazione: “Sempre meglio dell’immobilismo”. E comunque, per lui convinto che i giudici popolari in Assise siano una buona cosa, là è un elementare sorteggio di secondo grado a funzionare. Contrario alla separazione delle carriere, è favorevole alla partecipazione degli avvocati alla valutazione di professionalità dei magistrati (ora è uno dei quesiti del referendum).
E’ almeno cauto quanto alla “tendenza a definire come diritto soggettivo (o addirittura diritto fondamentale) tutto ciò che appare desiderabile”: così per la fecondazione eterologa, o per il “diritto al figlio”, temi che in democrazia dovrebbero essere il “giardino proibito” riservato al legislatore. La sua educazione cattolica gli fa temere la pressione della folla sui giudici, che è barbarie: “Quelli risposero: Barabba!”.
Non lo convince affatto “che il 41 bis sia diventato permanente”. E’ contro l’ergastolo. Del carcere, come ormai vi aspettate, pensa come nella battuta del film “Riso amaro”: “Parla bene del carcere solo chi non ci è mai stato”. Specialmente, aggiungo io, se chi non ci è mai stato fa di mestiere il giudice. Borgna lo frequentò e si prese cura della drammatica questione del domicilio per gli immigrati. Caso ancora raro: giusto mercoledì sul Dubbio si intervistava il presidente del tribunale di sorveglianza fiorentino, Marcello Bortolato, a proposito della scuola di magistratura francese che “spedisce” i futuri giudici in galera per una settimana. “Anche da noi, quando presidente della Scuola superiore era Valerio Onida, i giovani magistrati in tirocinio erano tenuti a frequentare degli stage penitenziari addirittura per 15 giorni. Poi, per alcune ingiustificate polemiche che sono sorte anche all’interno della magistratura, non se ne è fatto più nulla… L’impressione che ho tratto dopo più di 30 anni di carriera è che molti magistrati del penale, ben più di quelli che si possa immaginare, non hanno mai fatto ingresso in un carcere se non nella piccola saletta ove si svolgono gli interrogatori. I cancelli raramente sono stati oltrepassati, anche solo per curiosità”. Rileggete bene: “Anche solo per curiosità”.
Le ultime pagine della conversazione sono riservate all’impegno per la giustizia internazionale, in cui Borgna ha avuto parte. Rosatelli diffida delle corti penali internazionali, inevitabilmente parziali per la soggezione ai rapporti di potenza. Si è formato, dice, sui testi realistici di Danilo Zolo. Io ne fui interlocutore e contraddittore, e vicino al pensiero e all’opera di Antonio Cassese. La giustizia internazionale è certo parziale, dovendo rassegnarsi al fatto che i rapporti di forza le impediscano di portare alla sbarra Xi Jinping o Trump o anche gerarchi minori, ma troppo potenti per lei. Ma può non essere parziale nel giudizio in cui possa intervenire. L’altroieri è stata confermata in appello la condanna di Ratko Mladic per genocidio. Temetti che il realismo di Zolo avrebbe impedito di ottenere quel processo, e forse anche di fermare il genocidio.