Il magistrato Nino Di Matteo, presidente dell'Anm di Palermo (foto Ansa) 

piccola posta

L'orrore della mafia non si discute, l'interpretazione dei fatti invece sì

Adriano Sofri

Magistrati e giornalisti fanno bene a raccontare Cosa nostra, la voglia di saperne di più è antidoto al quieto vivere. Ma su alcune questioni si rischia di essere accecati dall'allarmismo. La trattativa stato-mafia e l'ergastolo ostativo sono problemi aperti

Domenica sera ho visto, in replica, il lunghissimo documentario-reportage di Massimo Giletti, con Sandra Amurri ed Emanuela Imparato: “Abbattiamoli. Chi ha voluto le stragi di Cosa Nostra?”. Dissento da due convinzioni di Giletti e del suo principale interlocutore, il magistrato Nino Di Matteo: il modo di intendere la “trattativa”, e l’attaccamento strenuo all’ergastolo cosiddetto ostativo. Dirò perché. Intanto voglio dire che a un grande pubblico non specialista (cui appartengo) la trasmissione non può non aver fatto un’impressione terribile. Non per notizie inedite, ma per la forza delle voci, delle facce, degli scenari e del montaggio. Due persone sopra le altre, Fabio Lombardo, figlio del maresciallo dei carabinieri Antonino morto ufficialmente suicida, a 49 anni, nella sua auto, in caserma, nel 1995, e Luana Ilardo, figlia di Luigi, divenuto collaboratore dei carabinieri e ucciso mentre aspettava invano la cattura di Provenzano, individuato in un casolare a Mezzoiuso in cui sarebbe rimasto indisturbato ancora per anni. “Al processo dissero di aver rinunciato all’operazione – ricorda Luana – per la presenza di pastori e pecore nei dintorni!”. Fabio Lombardo rivendica un merito decisivo nella cattura di Totò Riina a suo padre, che segnalò i rapporti coi Ganci della Noce e i fratelli Sansone: la stessa notizia che il capitano Ultimo menziona come decisiva attribuendola a Balduccio Di Maggio, e mostrandosi ignaro della segnalazione di Lombardo. Fabio non crede al suicidio di suo padre e si batte da tempo perché l’indagine sia riaperta, e se ne riconosca il nesso con la vicenda di Gaetano Badalamenti, disposto a parlare, ed eventualmente a rientrare dall’America, solo con lui. Il biglietto lasciato dal maresciallo (ci sono dubbi sull’autografia?) suona comunque come una denuncia tremenda: “Mi uccido per non dare la soddisfazione a chi di competenza di farmi ammazzare e farmi passare per venduto e principalmente per non mettere in pericolo la vita di mia moglie e i miei figli che sono tutta la mia vita”. 

 

Ci sono altre figure, altri episodi memorabili, come lo spettacoloso agguato a fuoco teso sul lungomare di Mazara del Vallo al commissario Rino Germanà da un terzetto eccellente di capimafia, Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano: Germanà, alla guida di una Panda, rispose al fuoco, riuscì a uscire dall’auto e a scampare alle ulteriori raffiche gettandosi in mare (Germanà, l’inquirente che a Trapani seguì dall’inizio la vera pista per Mauro Rostagno). Ci sono racconti avvincenti, come quelle dell’ex comandante del reparto investigativo di Monreale, oggi generale, Domenico Balsamo, e il suo ricordo della cattura di Di Maggio a Borgomanero, dove un disgraziato Salvatore Baiardo, gelataio e domestico dei Graviano, parla del suo servizio come di un impiego alla Cassa di Risparmio. C’è un convincente procuratore di Caltanissetta, Gabriele Paci, che accenna con un’ironia trattenuta che “qui ne sappiamo qualcosa, di depistaggi”. Fanno impressione i lunghi brani degli sfoghi di Riina carcerato col compagno di passeggio che lo registra, per la spietatezza, e ancora di più per la tragica comicità, insuperabile nell’invettiva contro Messina Denaro figlio, e la sua mania dei pali (le pale eoliche), i pali della luce…

 

Cose note? Non abbastanza, non così concatenate. Ingroia dice che Caselli, dopo aver deplorato in una lettera la mancata perquisizione alla casa di Riina e averne ricevuto in risposta una rivendicazione dell’autonomia investigativa da parte di Mori, si accontentò di scrivere un’altra lettera: la procedura giudiziaria avrebbe aspettato anni. 

 

Può darsi che resti nello spettatore un disorientamento, o una ripugnanza sbigottita. Forse però una voglia di saperne di più, e lavarsene meno le mani: dopotutto la questione della trattativa ha un nome antico e più corrivo, il quieto vivere. Quasi tutti gli episodi trattati nel reportage sono già diventati libri di testimonianze dirette o indirette. E poi resteranno le migliaia di migliaia di carte processuali, dove la trattativa si è chiamata minaccia a corpi dello stato. Nino Di Matteo, in conclusione, dichiara di non aver mai ritenuto, lui e i suoi collaboratori, che ci fosse stata corruzione, collusione, “e tanto meno intimidazione subìta” da uomini dello stato e Cosa nostra, ma che i primi avessero agito in nome della ragion di stato senza alcun rispetto delle regole, specialmente dell’autorità giudiziaria; e che la ragion di stato può essere invocata, reati compresi, purché con una scelta chiara e trasparente. Penso, ma le mie letture non vanno molto oltre Botero, che la ragion di stato sia stata inventata proprio per evitare la trasparenza. Quando Di Matteo spiega che le decisioni dettate dalla presunta ragion di stato hanno rafforzato la mafia e convinto Riina che la strategia stragista rendesse, sta dando un’interpretazione storica, più o meno discutibile, difficilmente trasferibile sul piano del reato e del giudizio penale. 

 

Infine, l’obiezione allarmata al ripristino del dettato costituzionale sull’ergastolo ostativo. Tornare all’ergastolo “semplice” (!) non vuol dire affatto cedere alla liberazione ineluttabile dei criminali mafiosi, al contrario. In Norvegia, dove la pena massima è di 21 anni, e a quella è stato condannato un mostruoso stragista come Breivik, allo scadere dei 21 anni la giustizia di quel paese, che con il detenuto Breivik discute dell’uso di computer e videogiochi, si riserva di valutare se costituisca ancora un pericolo per la società. La divergenza da noi riguarda un punto: se la “collaborazione”, cioè la delazione, debba essere l’unica condizione al superamento dell’ergastolo senza scampo. Tristissimo è il pensiero che chi sia contro l’ergastolo stia facendo il gioco delle mafie. Varrebbe altrettanto nei confronti della pena di morte, con la quale almeno la partita si è chiusa. Salvo errore.