piccola posta
Il miglior contrappunto alle elezioni in Iran. Un romanzo
Politica-letteratura, andata e ritorno. Nel libro “Uomo del mio tempo” l’eco dei massacri del 1988 a Teheran e un personaggio che è la controfigura di un giovane Torquemada di allora: il neo presidente Ebrahim Raisi
Non vedo modo migliore per risarcirsi del risultato dell’elezione presidenziale iraniana che raccomandare il romanzo di Dalia Sofer, “Uomo del mio tempo”, Mondadori, pp. 344, 20 euro. Per molte ragioni, e per il colpo di scena finale di una imprevista coincidenza di personaggi. L’eletto, Ebrahim Raisi, nato nel 1960, fu nel 1988 membro influente del tribunale speciale che liquidò migliaia di oppositori politici, Mojaheddin e-Khalq, comunisti del Tudeh, trotskisti e altri eterodossi. E oggi l’hojjatoleslam ligio e grigio passa addirittura per l’erede designato dell’ottantaduenne Khamenei.
Sofer nacque a Teheran nel 1972 da una famiglia ebraica benestante. Suo padre, arrestato e torturato dai pasdaran come agente sionista, nel 1982 riuscì a portar via la famiglia fino agli Stati Uniti. E’ la storia narrata nel primo romanzo, “The Septembers of Shiraz”, in italiano per Piemme, “La città delle rose”, 2008 (ce n’è un film). Le assegnò un posto originale nel genere delle scrittrici ebraico-iraniane nell’esilio – o nella diaspora. Donne, legate alla cittadinanza iraniana perduta (per sempre?) alla tradizione ebraica antichissima di Iraq e Iran, e al luogo di arrivo. L’“Uomo del mio tempo” (il titolo è un verso di Quasimodo) sta nell’Iran degli ultimi tempi dello Scià, dei tempi nuovi della teocrazia sciita, e soprattutto dell’intervallo, quando si poté credere al cambiamento, vedervi un protagonismo del popolo in rivolta – mai si erano viste masse simili prendere il campo, e “masse” era ancora la paroletta incantatrice – capace di accostare sogni socialisti ed esistenzialisti e interpretazioni dei sogni in chiave di messianismo sciita e di teologia del martirio.
Nel biennio rivoluzionario, 1978-79, quel popolo affronta a mani nude una repressione sanguinaria e si sente padrone del proprio destino. Dura poco. Il protagonista di Sofer, che parla in prima persona maschile, è uno di loro. Si muove a tentoni. Misura una distanza di sicurezza dalla famiglia. Un padre al ministero della Cultura, dedito alla compilazione di una universale enciclopedia dell’arte, complice e beneficiario intristito del vecchio regime. Una madre trasognata nel vagheggiamento di una nobile discendenza e di favolosi viaggi in Europa. Un fratello meno maldestro e più ordinario. Lui, Hamid, è una specie di uomo senza qualità. Rovinerà suo padre, che tradì Houshang, l’artista coraggioso suo amico, che morirà mentre proprio lui lo interroga; o per vendicare il disprezzo in cui suo padre ha tenuto lo zio prediletto di Hamid. Forse perché suo padre ha buttato via una sua biglia di vetro colorato con una piccola crepa, che gliela rendeva più cara. Forse perché rovinare le cose è più facile e dà un piacere penoso.
Hamid si unisce alla giovane intelligenza europeizzante e di sinistra, forse perché si innamora della giovane fotografa ebrea Minoo, cerca di infarinarsi a Lenin e di fare proseliti a vanvera. Parte in moto in cerca di sé, finisce nelle città sacre, a Mashad, a Qom, carica un giovane seminarista, è tentato di provare anche con lui il suo Lenin tascabile, è l’aspirante mullah a catechizzarlo con una cassetta clandestina. Ascolta il sermone dell’ayatollah esule nella sua casetta a Najaf, si chiede se non sia quella la strada. Partecipa, con Minoo, alla grande adunanza inerme e poi allo scontro con i picchiatori dello scià, esitante fra nonviolenza – forse solo viltà – e violenza. Ha qui l’incontro fatale con Akbari, uno che invece cerca nella mischia la propria fortuna, e che diventerà il suo capo, e intanto, con la prima violenza, lo rende capace delle prossime. Quando il cambio di regime si sarà consolidato, le cose avranno deciso per lui: si lascerà reclutare, ricattato, o forse anche volontario, come interrogatore di arrestati dal nuovo potere. La sua famiglia ha dovuto fuggire in America, lui resta. Ha il potere di salvare ogni tanto qualcuno, dunque di perderne molti altri. Non è facile persuadersi che interrogare e torturare sia una versione dignitosa di entrismo. Non sa tenersi Minoo, la quale è restata anche lei, perché tutti gli ebrei partono. Trova una Noushin, avrà con lei una figlia, Golnaz, non saprà tenersi né l’una né l’altra. Una vocazione forse c’era stata in lui, il disegno di un Everyman Jamshid, l’uomo in rivolta, che gli aveva procurato una piccola fama fra i compagni, e gli rimane attaccato come una possibilità che non si è compiuta. Senza essere stato un vero attore consapevole del trapasso dal cinismo tronfio dei Pahlavi, non è un vero attore del suo contrappasso, l’ottusità e la brutalità khomeinista. E’ sempre sul punto di lasciare tutto per farsi riprendere. Il guaio degli autolesionisti è che non possono rinunciare, di passaggio, a fare molto male agli altri. E’ attaccato alle cose, una pietra da preghiera dello zio Majid, una scatoletta di mentine.
Più di trent’anni dopo va a New York, al seguito del ministro degli Esteri iraniano all’Assemblea generale dell’Onu, e a incontrare fratello e madre, il padre è appena morto. Nella scatoletta di mentine riporta un po’ delle ceneri paterne, clandestino, perché la cremazione è vietata. Le spargerà in un parco sopra Teheran. Le rivoluzioni divorano i loro figli. Hamid se ne è sentito un antenato, non sa più distinguere fra quello che è fatto a lui e quello che è lui a fare. “Noi siamo una generazione mancata”, gli dirà al telefono suo fratello. Il messaggio di congedo di sua figlia si conclude così: “Adesso lasciateci in pace. Noi, i vostri eredi, non vogliamo più sentir parlare della vostra vecchia rivoluzione. Vogliamo buoni amici, amanti devoti, serate di musica, giornate di conversazioni e idee… Mi dispiace, baba, per tutti due. Abbi cura di te”.
Quando tocca a lui di essere arrestato e interrogato, perché il suo cauto armeggiare con la scatola di mentine ha insospettito, e l’interrogatore sta per assaggiarla, il ministro interviene benignamente a tirarlo fuori. Altre volte lo ha salvato il suo capo, Akbari, e ogni volta lo tiene più in pugno. Lo pretende simile a sé: fatti per distruggere, non per creare. Una volta, nell’estate del 1988, “l’allora vice Guida Suprema, un uomo soprannominato Gorbeh nareh, il Gatto, per via della faccia tonda e della barba incolta, ci aveva implorato di annullare le esecuzioni di migliaia di prigionieri politici… Aveva inviato diverse lettere al suo superiore, l’ayatollah e Guida Suprema, senza ottenere niente, e in un’insolita manifestazione di dissenso aveva incontrato i membri della magistratura… Akbari era andato alla riunione e aveva portato anche me, che l’avevo registrata di nascosto… Nei quaranta minuti di registrazione si sente il Gatto parlare. Ad ascoltarlo diversi giudici… e Mostafa Akbari, all’epoca promosso a procuratore generale, e io, la sua ombra. ‘Il crimine peggiore nella storia di questa repubblica’ stride la voce del Gatto sul nastro ‘sta avvenendo per mano nostra. E la storia stessa la condannerà’. /… / Avevamo iniziato a uccidere anche i nostri… Akbari, deciso a portare a termine le esecuzioni, tenne un monologo degno di Macbeth… e io non lo contraddissi. Rimasi in silenzio”.
Dopo il ritorno da New York, dopo l’interrogatorio dalla parte sbagliata del tavolo, dopo il congedo di Noushin e di Golnaz, Hamid tirerà fuori quella vecchia registrazione e la renderà pubblica. Per sua figlia, forse. La pubblicazione, “come previsto, non fece troppo rumore e fu seguita da un’unanime sconfessione”. Mostafa Akbari gli scrive: Hai fatto il passo falso che mi aspettavo da sempre. Il tuo solenne tentativo di rettitudine è irrilevante. Il mondo ci sta surclassando in crudeltà e doppiezza…
Richiamo l’attenzione di chi mi abbia seguito fin qui, bontà sua. Le parole dell’erede designato di Khomeini nel 1988 furono effettivamente pronunciate. Era il Grande Ayatollah Hossein Ali-Montazeri (1922-2009), gli costarono la perdita del titolo di erede e, morto Khomeini e insediato Khamenei, anche del titolo di Grande Ayatollah, e anni di arresti a domicilio. Nell’agosto 2016 comparve, sul sito ufficiale di Montazeri curato dai suoi, la registrazione di quell’agosto del 1988: “Dichiaro che questo è il crimine maggiore commesso nella Repubblica Islamica dalla rivoluzione e che la storia ci condannerà… La storia vi ricorderà come criminali”. E davvero a quell’incontro partecipò il neo-eletto presidente Ebrahim Raisi, in un ruolo che fa del Mostafa Akbari del romanzo una sua controfigura letteraria. Seminarista a Qom nel 1979, il ventenne Raisi era stato nominato l’anno dopo procuratore generale di Karaj, oggi inglobata dall’espansione di Teheran, e da lì a Teheran. Nel “Comitato della morte” del 1988, il ventottenne Raisi sedette come vice del procuratore generale Morteza Eshraghi. Gli è imputato il massacro di almeno 3.000 persone. Con lui a capo della magistratura infierirono torture, impiccagioni e fustigazioni. L’appoggio di Khamenei gli aveva già procurato l’appannaggio del santuario dell’Imam Reza a Mashad, una delle fondazioni più ricche del paese. Nel 2017 era stato autorizzato a candidarsi contro il presidente Rouhani, perdendo ma raccogliendo quasi 16 milioni di voti.
“Man of my time” è uscito all’inizio del 2020. Alcuni personaggi e il loro contesto sono calcati sulla realtà – “il ministro”, per esempio, sulla figura di Javad Zarif, ministro degli Esteri del governo di Rouhani dalla caduta del pazzo Ahmadinejad, nel 2013, a oggi.
Non vorrei forzare l’intenzione della scrittrice, ma questa preveggenza fa davvero del suo romanzo il miglior contrappunto all’elezione iraniana. E all’altro suo connotato, l’enorme astensione dal voto. Il romanzo di Sofer confronta la decisione di restare con l’esilio (ci sono 300.000 persone di origine iraniana a Los Angeles, 30.000 di origine ebraica). Hamid fa pensare a un esilio interno più straniato che non il vero esilio. Ci sono tempi e luoghi in cui il frutto della conoscenza è stato morso e poi il sapore è stato perduto. Qualche esperto ha letto nella regressione dell’ultimo Khamenei e del Raisi imposto alla presidenza una debolezza mal dissimulata. Può darsi: l’astensionismo record degli elettori iraniani sembra piuttosto una silenziosa obiezione di coscienza che non si autorizza la combattività. Un “preferirei di no”. Un esilio interno come quello che segnò per più di mezzo secolo l’Europa centrale e orientale, nel paese dell’Ashura e della Shi’a duodecimana.