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Vent'anni dal G8 di Genova. I racconti di chi c'era
Dal tragico al grottesco. La perdita dell'innocenza, la sfiducia e la frustrazione nelle testimonianze dei militanti (dall'altra parte delle barricate il materiale è scarso). Il libro "I fatti di Genova. Una storia orale del G8" di Gabriele Proglio
Ogni tanto, non sapendo come chiamare qualcosa di grosso, si ripiega su “I fatti”. Successe soprattutto per “I fatti d’Ungheria”, perché non si voleva dire “La rivoluzione”. Succede ancora con “I fatti di Genova”. A distanza di vent’anni, quei fatti hanno una mole, e anche una qualità, di documentazione con pochi eguali per vicende della storia contemporanea. E non potrebbe essere altrimenti, dal momento che a Genova si raccolse una moltitudine enorme di persone, e la più varia per composizione sociale, ideale e di età, e fece in solido esperienza dello Stato. E per la prima volta su una tale scala intervennero telefoni cellulari, radio, internet e videocamere capillarmente diffusi. Testimonianze e riflessioni si moltiplicano in questi giorni ed è difficile tener loro dietro. Segnalo il podcast “Limoni”, di Annalisa Camilli e collaboratori, in otto puntate settimanali, da giugno, per Internazionale. E quello per Radio 3 di Daria Corrias e Mauro Pescio in cinque puntate, dal 5 luglio, “Genova per tutti”.
Ho frugato in cerca di testimonianze dell’altra parte, poliziotti, carabinieri, finanzieri, agenti penitenziari: erano molte migliaia anche loro, e devono avere ricordi altrettanto mordenti. Non li ho trovati, salvi alcuni di funzionari o dirigenti di grado alto, i meno interessanti: cercherò ancora. Ho letto invece “I fatti di Genova. Una storia orale del G8”, appena uscito per Donzelli: sono decine di interviste di partecipi piemontesi raccolte, alla distanza dei vent’anni, da Gabriele Proglio, con la prefazione di Alessandro Portelli. Proglio è cultore di storia orale e accompagna i racconti suddivisi per capitoli – prima, durante e dopo – con valutazioni di metodo e di merito più adatte a lettrici o lettori a loro volta specializzati. La ricostruzione del contesto e i testi di ricordi e riflessioni, che appartengono a militanti di sinistra sociale, affrontano questioni cruciali: la riduzione mediatica preventiva degli avvenimenti alle minacce per la sicurezza, alla “guerra” e alla incombenza reale e fantastica dei Black bloc, la riduzione della memoria allo stato d’animo di vittime, l’effetto di quei giorni di luglio sull’esaurimento di un movimento internazionale No global – “aperto a tutti”, con l’idea che “assediare i palazzi” fosse una strategia – cresciuto impetuosamente fino ad allora. Questioni che rimangono, credo, aperte.
Chi, come me, pensa che a Genova si fosse coltivata e premeditata una punizione esemplare di quel movimento, che completasse agli occhi dei Grandi il successo italiano – mettete dei tonfa nelle vostre fioriere… – resta tuttora colpito dalle infantiliste avventure di attori di spicco (e che cercavano di spiccare) del movimento. E colpito dalla rilettura di calcolate profezie di sventura grottesche – i palloncini di sangue infetto di Hiv in dotazione dei manifestanti… – accanto ad altre che il futuro molto prossimo avrebbe reso terribilmente credibili: l’attentato islamista, gli aeroplani kamikaze, la contraerea sui moli a prevenire Bin Laden… Il movimento non si sarebbe estinto di colpo, avrebbe vissuto per esempio la grandiosa e bella manifestazione di Firenze nel novembre 2002: ma era un’eco. Il doppio colpo del luglio 2001 genovese e dell’11 settembre americano avrebbe segnato il destino di quel modo di mobilitazione.
Proglio, che interroga i suoi interlocutori su questo punto, conclude che con Genova non fosse “finita”, al contrario. Il giudizio rischia di diventare un gioco di interpretazioni su continuità e discontinuità, ma a me è parso che nei racconti che ha raccolto prevalga la convinzione e il sentimento di una cosa che finisce nella frustrazione e nell’offesa. Torna, in questi militanti che ricordano Genova vent’anni dopo, l’espressione cruciale per il 12 dicembre di cinquanta anni fa: la perdita dell’innocenza, della verginità. Scavare nella differenza sarebbe fruttuoso: qui lo Stato, governo e apparato della forza, era apertamente e ostentatamente in campo. Dunque finisce e male, nella smisuratezza della violenza attuata dal potere e nell’imbarazzo delle sfide inermi (o, peggio, presuntamente armate) di quello che era cresciuto come un contropotere. Il desiderio, e la convinzione della giustizia, di un mondo diverso, quello ha una lunga durata, anche quando non appare più, come alla vigilia di Genova, “a portata di mano”.
(Una nota marginale: immagino che il libro abbia dovuto affrettarsi per uscire in tempo. Ha un insolito numero di errori di stampa, o di sviste. Il giornalista – bravissimo – Fabrizio Ravelli chiamato Francesco, il ministro Enzo Bianco chiamato Enzo Bianchi… Auguri per la ristampa).