piccola posta
Le belle promesse fatte ai collaboratori afghani, tutte disattese
È oggi chiaro che molte persone cui era stato garantito il diritto di riparare in Italia non riusciranno ad arrivare. Si dirà che era imprevedibile la precipitazione? Due mesi dopo che “gli ultimi militari” erano stati rimpatriati?
Parole pregiudicate dall’esercizio abusivo, onore, disonore. Ora il ritiro dall’Afghanistan si compie nel disonore. A noi spetta una quota. Chiunque abbia visitato la base italiana a Herat ha conosciuto l’angoscia dei collaboratori locali, non solo gli interpreti, rispetto al giorno della smobilitazione. Che era sentita imminente da anni, e specialmente dal 2013. Da allora si è protratta, sia pure attraverso mutamenti nelle regole d’ingaggio, sempre con quell’incombenza. Si dovrebbe ritenere che l’elenco dei collaboratori da portare al sicuro, coi loro famigliari, fosse preparato da sempre e costantemente aggiornato. L’8 giugno scorso a Herat si è celebrato, alla presenza del ministro della Difesa, l’ammainabandiera ufficiale nella base italiana. Il 29 giugno, con un apprezzato anticipo, “gli ultimi militari italiani” sono sbarcati a Pisa. Non occorreva evocare l’onore per immaginare che prima di evacuare “l’ultimo militare italiano” si fosse provveduto a portare in salvo quei collaboratori – nei dati ufficiali, fra le 400 e le 500 persone, numero irrisorio (e del resto insufficiente: un’obbligazione analoga dovrebbe riguardare anche le persone, soprattutto donne, che costruirono efficaci e coraggiose iniziative civili avvalendosi del sostegno e della tutela delle forze italiane).
Il 6 giugno, sul Corriere, Paolo Mieli aveva pubblicato un editoriale, “Salviamo chi ci aiuta a Kabul”, in cui dava per consumata la sconfitta piena del ventennale intervento internazionale, come chiunque seguisse le cose afghane e il tragicomico negoziato di Doha, e avvertiva: “Tutti coloro che in qualsiasi modo hanno aiutato il regime dei ‘liberatori’ avranno paura di subire ritorsioni e si accalcheranno ai cancelli delle nostre ambasciate per implorarci di non essere abbandonati nelle grinfie dei vincitori”. Alla disfatta, concludeva, si aggiungerebbe “l’onta di aver lasciato a pagarne l’intero prezzo coloro che sono stati per decenni al nostro fianco”.
L’onta, ecco una parola ancora più impegnativa e pregiudicata del disonore, una parola risorgimentale. Lavare l’onta, si diceva. Compito attuale. Non ci si premurò di dare il passo a quelli che erano stati al nostro fianco ed erano perciò minacciati, come sulla nave che affonda – donne, bambini e uomini. La Difesa comunicò poi che “con l’operazione Aquila 1 dello scorso giugno, 228 interpreti afghani sono stati già inseriti nel programma di accoglienza”. Inseriti nel programma. È oggi chiaro, mentre qualche benedetto volo accompagna a Roma alcune decine di collaboratori afghani dell’ambasciata o di altra provenienza, che molte persone cui era stato garantito il diritto di riparare in Italia non riusciranno ad arrivare. Si dirà che era imprevedibile la precipitazione? Due mesi dopo che “gli ultimi militari” erano stati rimpatriati?
Ci sono cose che l’evocazione di quelle parole antiquarie, onore, disonore, onta, rendono stridenti. Un ministro degli esteri spiaggiato, nel giorno dell’aereoporto di Kabul, nel giorno in cui una sua paginata sul Corriere annuncia che “monitoriamo la situazione ora per ora”.
Beninteso, già nel famoso scorso giugno, i talebani avevano assicurato che “gli interpreti e le loro famiglie non avranno nulla da temere, se dimostreranno di essersi pentiti e proveranno rimorso per le loro attività di collaborazionismo con gli stranieri invasori”.