piccola posta
Il caso di Mario Tuti e i conti sempre aperti con la propria coscienza
Dopo 17 anni di semi libertà, ha destato scalpore la partecipazione dell'ex terrorista nero a un campo estivo di neofascisti. Prima di giudicare occorre farsi un'idea dell'uomo e della sua maturazione
Nel 1975 Mario Tuti, impiegato del comune di Empoli e fascista repubblichino, durante una perquisizione uccise due poliziotti e ne ferì gravemente un terzo. Latitante, venne ferito e catturato mesi dopo. In carcere, nel 1981, partecipò all’uccisione di un altro neofascista, accusato di essere un “infame”. Nel 1987 capeggiò una rivolta a Porto Azzurro, che prese molti ostaggi e si concluse senza vittime. A questo punto si è guadagnato due condanne all’ergastolo e una a 14 anni. Dagli anni 90, nel carcere di Civitavecchia, smette la propria postura di combattente per quella di un detenuto che sta alle regole e partecipa, da quando gli è consentito, alle attività sociali. Quattordici anni dopo, nel 2004, quando ha già ottenuto più volte di visitare la vecchia madre, la magistratura di sorveglianza fiorentina gli concede la semilibertà: lavora fuori di giorno, in una comunità per tossicodipendenti a Tarquinia, e rientra in carcere la notte. Da allora, sono trascorsi altri 17 anni. La sua detenzione dura da 46.
All’inizio dell’estate, in una delle licenze di cui usufruisce da tempo, presenzia a un “campo estivo” dei giovani neofascisti del Blocco Studentesco, associati a CasaPound. Un filmato Rai lo mostra fra quei giovani. La notizia solleva l’indignazione della sindaca democratica di Empoli, dove la memoria è più viva, poi dei parlamentari toscani del Pd, e via via di altri esponenti antifascisti e di associazioni di famigliari di vittime del terrorismo. Si interrogano le ministre dell’Interno e della Giustizia. Bisogna pensare solo allo sdegno sincero, perché quello di maniera non merita attenzione: che cosa fa scandalo? Che Tuti sia intervenuto in un campeggio neofascista? Ma non sembra aver violato alcuna prescrizione contraria. “Sapere che esistono centri estivi neofascisti e che nessuno fa niente per impedire che questo avvenga mi pare gravissimo”, dice anche la sindaca di Empoli: così il problema si sposta sulla eventuale illegalità del centro estivo, che per ora non risulta esistere. Allora forse bisogna chiedersi se la presenza fisica di Tuti a quel ritrovo sia la prova, o un indizio forte, di una sua intenzione eversiva attualmente pericolosa, così da inficiare la semilibertà di cui fruisce da 17 anni. Il giudice di sorveglianza competente deve averlo pensato, perché ha sospeso la licenza, e si accinge a esaminare la revoca del lavoro esterno.
Io non conosco Tuti, e mi sono fatto delle domande. Siccome la sua detenzione è così lunga (46 anni, e lui ne ha 75) e anche il riconoscimento della sua estinta pericolosità è così lungo (trent’anni), la ferita improvvisa suscitata dalla notizia in una parte di opinione può essere, oltre che il segno di una sensibilità fedele, un indizio della riluttanza ad ammettere le conseguenze di due capisaldi costituzionali e civili, come l’abolizione della pena di morte e l’affermazione che la pena possa restituire il condannato alla società? (Per esempio, è ragionevole chiamare Tuti “terrorista nero”? E’ un tradimento della memoria premettere un “ex”?)
Non ho modo di rispondere se non raccogliendo un po’ di dati disponibili. Cessata la non breve stagione “irriducibile”, in cui Tuti pronuncia parole di guerra incresciose, si trovano sue ripetute dichiarazioni di non essere “pentito”. Ma così formulate, per esempio. “Il carcere cambia radicalmente le persone e, anche se non amo definirmi pentito, oggi non sono socialmente pericoloso e non mi ritengo neppure una persona malvagia. Con la mia coscienza, però, il conto è ancora aperto. Non ucciderei più, ma ciò non mi consola. Provo un dolore profondo e incancellabile per ciò che ho commesso” (al Corriere, 2004). Oppure: “Facile dire sono pentito e chiederlo, ma mi sembrerebbe un modo per oltraggiare le vittime. Non me la sento” (La Nazione, 2016). Per anni, se non ricordo male, Tuti tiene una rubrica sul settimanale di Comunione e Liberazione Tempi, attento alla condizione carceraria, e là si leggono scritti addirittura sconcertanti come questo: “E anch’io, alla soglia dei settant’anni (gli anni della nostra vita sono settanta, dice il Salmista) e nel mio quarantesimo anno di detenzione, provo a fare un bilancio della mia vita e di quest’anno ormai trascorso. Ringraziando il Signore – seppure da non credente – per avermi fatto conoscere la colpa, il peccato e la pena. Perché è stata l’esperienza del dolore e della violenza, inferti e in parte subiti, che mi ha reso capace di sentire nella carne e nella coscienza il dolore altrui, che mi ha fatto vivere e riconoscere gli altri in me stesso, aprendo il cuore a quella solidarietà nella pena e nella sofferenza che resta anche quando tutto il resto è ormai perduto. Quel soffrire insieme, quella sympatheia e compassione che può ancora tutto salvare, e cambiare. Dando un senso anche alla nostra caducità, finitudine e colpevolezza. Ti lodo e Ti ringrazio per i momenti di fatica e di angoscia a condividere le ansie, le paure, le fughe, la disperazione, il malessere dei ragazzi della Comunità – cercando sempre di dare un abbraccio e una speranza, ricordando loro le parole del Cristo: ‘Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò…’. Ti lodo e Ti ringrazio per il carcere, la sua solitudine, la sua miseria morale e materiale… senza le quali non avrei rigettato l’orgoglio e imparato l’umiltà, cercando di cambiare il mio cuore di pietra con un cuore di carne!”.
Beninteso, si può ritenere che tutto ciò non sia se non una lunghissima impostura, la maschera di uno che non ha deposto le armi e aspetta solo di trovare qualche giovanotto del Blocco Studentesco per ricominciare e finire in gloria. Mi sembra difficile, non per l’età, ma per l’amor proprio. Ho guardato anche una recente intervista di Tuti a una tv simpatizzante, e ho preso qualche appunto (non testuale) significativo della sua epopea retorica contrastata dalla bonomia del tono e della fisionomia (si smettono anche le facce truci). “Il carcere aiuta a conservare una dignità, un’integrità. Volevo testimoniare che non ci avevano annientato, avevamo messo in gioco la nostra vita e purtroppo anche quella degli altri. Noi e i ‘compagni’, per una decina d’anni avevamo continuato a farci guerra fra noi, e allo stato. Poi abbiamo confrontato i rispettivi immaginari. Furono anni di isolamento, dei famigerati ‘braccetti’, una forma di tortura. Non avrei mai potuto lamentarmene: ero in guerra, lo stato era il mio nemico, io il suo, era dura ma se mi avessero interrogato avrei dovuto dire che avevano ragione a trattarmi così. Oggi è più pericoloso per un romanista finire nella curva laziale che per me trovarmi in un centro sociale o per un compagno a CasaPound. Sono inserito, seguo un master con docenti tutti più giovani, i ragazzi con cui lavoro mi vogliono bene. Oggi non si può capire che cosa erano quegli anni, e già allora vivevo di altri anni. Per andare a scuola passavo ogni mattina da Santa Maria Novella, e il mio desiderio più struggente era di essere fucilato anch’io nell’agosto del ’44 su quel sagrato – ma ero nato nel ’46. Mi sentivo un reduce della Seconda guerra, defraudato di quella tragedia, la sconfitta, la morte. Mi chiedevo se avrei saputo reggere, alla morte, alla prigionia. Quindici anni fa, dopo tanto scriverci, ho incontrato mia figlia, e mi ha chiesto spiegazioni anche lei. Ci provai, ma non capirai comunque, le dissi, nonostante l’affetto. Anche uno di CasaPound, che magari oggi mitizza Mario Tuti, non potrebbe capire. Il carcere congela la storia, i sentimenti, è inutile cercare quel mondo, non c’è più. A Tarquinia lavoro in tipografia, dalle 12 alle 16 sto coi ragazzi, con lo psicologo, gli operatori, sono un operatore anch’io...”. Ecco. Ho pensato che possiate farvi un’idea. Per fortuna, non siamo giudici di sorveglianza, soprattutto quando le luci si accendono.