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Djokovic stroncato da Medvedev allo Us Open e la differenza tra uomini e donne nello sport
È difficile non attribuire una certa importanza a quei venti centimetri fra le rispettive altezze delle due finaliste e dei due finalisti agli Us Open di tennis. Intanto godiamoci l'evoluzione culturale negli occhi rossi di pianto del campione serbo
Ero preso dai pensieri tumultuosi di questo tempo, da uno in particolare: che l’aspirante esportazione della democrazia viene immaginata e tentata soprattutto attraverso l’azione militare, e che l’azione militare è ancora eminentemente maschile, rendendo a priori maschile un programma presunto come quello del sostegno alla liberazione delle bambine e delle donne in paesi come l’Afghanistan (o l’Arabia Saudita, meno frequentata allo scopo). Dunque sono stato colpito dalle due finali degli Open di tennis, nella notte di sabato quella femminile, la sera di domenica quella maschile. Prendiamo due dettagli, fra i tanti. Djokovic, stroncato da Medvedev, che si presenta in campo agli ultimi colpi, celebre eroe delle rimonte e della freddezza, con gli occhi bagnati di lacrime, e il pianto lo accompagna lungo tutta la cerimonia finale. Una dimissione dal modello del campione virile (serbo, che non guasta: era una finale fra slavi). L’altro dettaglio: le due diciannovenni finaliste del singolo, Fernandez e Raducanu, che hanno sbaragliato il campo, sono alte 1,68 e 1,75. Djokovic e Medvedev rispettivamente 1,88 e 1,98. Per giunta, eclissando il luogo comune ancora diffuso (più trivialmente sulle sorelle Williams, da un fesso coach russo chiamate “fratelli”) sulla “mascolinità” delle atlete, le due impreviste finaliste hanno una grazia quasi adolescente e contano più sulla risposta che sul servizio.
Ho altri due dettagli che fomentano l’interesse alla questione, ma non vengono da Flushing Meadows. Uno è la ribellione delle atlete norvegesi del beach volley al succinto (e scomodo) bikini da pin-up imposto loro severamente dalla federazione competente, con una vistosa differenza dall’uniforme di gioco maschile. L’altro è naturalmente il divieto appena ribadito dai farabutti talebani allo sport per le donne.
C’è un altro pensiero molto attuale, che fa mettere a confronto la cancellazione di donne e bambine sotto un medesimo sudario nero nell’Afghanistan in cui le donne sono state restituite (gratis) ai loro padroni, con la preziosa moltiplicazione delle distinzioni su sesso, sessualità, genere, nella nostra parte di mondo. Avendo ignorato il modo in cui la questione viene trattata da noi nello sport professionale, quando conserva, come agli Open, la drastica divisione fra maschile e femminile (c’è il doppio misto, ma è una conferma della norma) mi sono chiesto a che punto è il pensiero di genere sul tema. Mi ricordavo, soprattutto grazie al cinema, di episodi famosi proprio perché singolari e quasi circensi, come la partita del 1973 in cui la grande Billie Jean King batté il già formidabile e poi sbruffone Bobby Riggs, che però aveva 55 anni. O, nel 1992, la vittoria del quarantenne Jimmy Connors sulla 36enne Martina Navratilova, nonostante l’handicap in favore di Martina.
A farmi sui due piedi un’istruzione ho trovato la voce di Roberta Sassanelli per l’Enciclopedia dello Sport Treccani (2003), esauriente e stimolante. (La sociologa Sassanelli ha una mole di pubblicazioni impressionante, io avevo visto solo il libro del Mulino “Corpo, genere e società”, con Rossella Ghigi, 2018). Vi si rileva che “il concetto moderno di genere in realtà non si adatta affatto all’approccio binario della divisione sportiva. /.../ I test stessi utilizzati dal Cio sono spesso criticati, poiché nessun singolo indicatore chimico può dare una risposta univoca sul genere di una persona”. Nella voce si fa una puntuale e affascinante ricostruzione storica del tema, che per gente della mia età è stata esperienza diretta, da quando ai maschi toccava l’educazione fisica e alle bambine l’economia domestica. Consiglio la lettura.
Per le provvisorie conclusioni, trovo in luoghi diversi queste due proposizioni dell’autrice: “natura e cultura sono mutualmente costitutive” e “qualcosa che non scegliamo e che ci precede, questo è il nostro corpo”. Devo imparare ancora, perché non trovo del tutto compatibili le due frasi, e inclino a preferire la seconda. La prima sembra rendere la cultura azionista della nostra identità, rispetto alla natura, almeno al 50 per cento. La seconda sembra riconoscere alla natura una piccola maggioranza, almeno all’inizio e alla fine della storia. Non intendo riferirmi ai dibattiti sulla legge Zan, che non ho seguito abbastanza. Mi pare invece che quelle differenze colossali – più di venti centimetri… – fra le rispettive altezze delle due finaliste e dei due finalisti di New York, e delle velocità rispettive dei loro servizi, abbiano fornito una misura provvisoria della parte che la natura (certo virtuosisticamente elaborata) continua a riservarsi. E che gli occhi rossi di pianto di Djokovic, e l’inedita simpatia che gli hanno procurato – il più forte che perde – abbiano offerto un esempio di evoluzione culturale. E ora ricominciamo a pensare a se e come si vada dov’è vietato alle ragazze lo sport, la musica, il suono dei tacchi sul selciato e il diritto di avere un viso.