piccola posta
Le canzoni dell'Anarchia, idea indicibile raccontata da Maurizio Maggiani
Vent’anni dopo essersi presentato come “nato in una terra, la provincia Apua, dove l’Anarchia è un tratto genetico", ha scritto “L’eterna gioventù”, un romanzo bellissimo della storia di un’Italia in sei generazioni
Se la parola libertario finisce in mani sbagliate è un bel guaio, ha detto Maggiani, e in giro è pieno di mani sbagliate. Ogni vita è una grande vita, ha detto: forse è vero, ma deve metterci del suo, e deve trovare un bravo cantastorie. Vent’anni fa, Maurizio Maggiani si presentava “nato in una terra, la provincia Apua, dove l’Anarchia è un tratto genetico, temperamentale, prima ancora che un’idea politica... Quando da ragazzo ho chiesto ai vecchi anarchici del mio paese cosa fosse l’Anarchia, mi è stato risposto: l’Anarchia non si può dire”. L’Anarchia en se pò dir. Vent’anni dopo ha scritto “L’eterna gioventù” (Feltrinelli), un romanzo bellissimo della storia di un’Italia in sei generazioni vissute per amore dell’idea che non si può dire.
Che l’anarchia sia un’idea (un modo meno rinviato di intendere l’ideale) lo dice la canzone: È una grande idea, vuole la pace e la fratellanza, vuole che siano tutti fratelli /e sorelle, si capisce/ vuole il riscatto de ’sti ribelli. Essendo un’idea che non si può dire, l’anarchia si può specialmente cantare. Così il romanzo è anche un canzoniere. Quando due dei suoi cari protagonisti, Piero Pierino e la Canarina, vanno alla Casa del Popolo di Coronata e scoprono il tango, la Cumparsita, che sembra fatto apposta per loro, vien da pensare che l’anarchia è un’idea un po’ triste che si balla e si lotta. Un po’ triste perché non va a finire bene. Non che manchi l’allegria, anzi, “abbiamo combattuto per allegria, e così abbiamo vinto tutte le battaglie e poi abbiamo perso tutte le guerre”. In compenso non va mai a finire.
Ci sarà sempre una canzone: per dire “Addio a Lugano” e ricominciare. Gli altri, quelli del massacro, il generale Heusch dei moti di Lunigiana 1894, il generale Bava Beccaris dei moti di Milano 1898, riscuotevano onorificenze, promozioni, prefetture e seggi al Senato, ma non avevano le belle canzoni. “E noi cadrem in un fulgor di gloria, Schiudendo all’avvenir novella via: dal sangue spunterà la nuova istoria dell’Anarchia”. E: “Alle grida strazianti e dolenti di una plebe che pan domandava, il feroce monarchico Bava gli affamati col piombo sfamò”.
L’anarchia non è un rinvio, è anche lei un’aspettativa del dì fatato, ma con la sensazione sottile che non arriverà e che se arrivasse sarebbe un tradimento. Che quando è arrivato, è stato un tradimento, e ha il nome di Kronstadt. O di Solovki.
La prima riga del romanzo è un verso di canzone: “Nel fosco fin del secolo morente un vecchio garibaldino si lasciò alle spalle l’ultima rivoluzione e tornò a casa. Si tolse la camicia rossa con i galloni da maggiore e si vestì da straccione…”. Può ricordarvi i cent’anni di solitudine, al cui radioso incipit stava il colonnello, qui c’è il Generale. “Il nostro reduce aveva tredici anni quando si era buttato in mare per imbarcarsi col Generale Garibaldi, e fu il Generale in persona a lanciargli la sagola per issarlo a bordo. Era di maggio e l’acqua era freschina”. Infatti il canzoniere di Maggiani è versatile, e prende al volo anche il verso più bello di Di Giacomo: “Fresca era ll’aria e la canzona doce”. “Sbarcò a Genova, salì sul primo tranvai per Quarto, e a Quarto si cacciò in acqua vestito com’era e nuotò verso il largo finché ne ebbe la forza, poi si lasciò andare, perché aveva vissuto tutto ciò che c’era da vivere e non gli importava più di niente, se non di finire dove aveva cominciato. Fu riportato a riva contro la sua volontà su un barchino”, e siamo in fondo alla prima pagina.
Il leggendario veterano, Garibaldo, forse potrebbe combattere ancora una rivoluzione, ma non avrebbe più la forza di perderla. Invece non si è ancora innamorato di una donna ed è alla vigilia del suo tempo supplementare in cui s’innamora della principessa russa Esfir e diventa il capostipite di una progenie di figli unici e della loro epopea dei due mondi, l’Europa e le Americhe, e anche la Liguria mezzo toscana, del mare e del marmo, e la Romagna con i suoi ranocchi e le sue canzoni. “Addio o forlivesi ci rivedremo un dì se arrivo andare a Roma Non torno più a Forlì”. Verranno righe che hanno un suono di Elsa Morante, “e allora l’Angela generò Mauri, speranza e riscatto, e anche se all’inizio sembrava un po’ bruttino, era già tutto splendente” (per ricordare che “La Storia” è un grande romanzo sull’Anarchia, solo più disperato).
La copertina dell’“Eterna gioventù”, a prima vista, è una rossa deflagrazione. A guardare meglio è un garofano rosso. Un’esplosione in forma di garofano. “Urlan l’odio, la fame ed il dolore da mille e mille facce ischeletrite ed urla col suo schianto redentore la dinamite”. A proposito: quando avvenne che la dinamite, roba di minatori e cavatori e partigiani e roba di santa vendetta, diventò il marchio del vile terrorismo fascista? Smise ai giorni nostri, credo, di quelli vecchi come me, o poco prima, al tempo dell’Alto Adige. Fu al bando dopo che si era usata per colpire la gente, nel mucchio. A Piazza Fontana era consumato, “un compagno non può averlo fatto”. Vent’anni fa, Maggiani aveva continuato così: “So questo e so un’altra cosa. Che il dovere di ogni buon anarchico è di sistemare una bomba sotto il culo del Tiranno”. E aveva precisato, sulla differenza dei tempi: “Non c’è uomo in tutto l’occidente che potrei in coscienza colpire pensando di colpire il Tiranno”.
Garibaldo sposò Esfir, che era bambina quando la signorina Emma Goldstein la portò a vedere la forca coi 5 fratelli della Narodnaja Volja che avevano giustiziato lo zar Alessandro con due bombe all’Orsini, era la sesta volta che ci provavano, e le leggeva i fogli del principe Kropotkin e del principe Bakunin. Ed ebbero la Canarina che sposò Pierino l’Anciua, che andò soldato al fronte di Gorizia sotto il tenente Alessandro Pertini e gli salvò la pelle e gli squadristi gli spararono nel 1923 al ritorno dal ballo e al suo funerale Pertini abbracciò la Canarina e le disse: “Mi prometta signora, prometta a tutti noi che non si lascerà morire del suo dolore”. La Canarina, che aveva lavorato al munizionamento e aveva le gote gialle del tritolo, visse, lei, 117 anni, e avevano generato Bruto prode partigiano e morto di miniera, cui Chiarella generò Saverio (da Sante Caserio, che l’anagrafe così non volle registrare) detto l’Artista che andò in galera da falsario di dollari e con la sua Angela generò Mauri, l’anticipo della futura umanità, poliziotto eroe morto a Sidone nel Libano, che a tre anni cantava l’anarchia tutta la merda porta via, e da lui e Meri nacque il piccolo Menin, e siamo a oggi. Qualcuno aveva scritto: “Non ci deve essere nessuna guerra né tra me e te né tra noi e voi né tra voi e loro”. Ne fecero una canzoncina, ma nessuno ancora la cantò.
“Forse è stato tutto quel cantare a fregarci”.