piccola posta
Come la sentenza Giffoni potrebbe riabilitare la Farnesina e i suoi uomini
Il primo ambasciatore italiano in Kosovo è stato l’unico nella storia destituito dal ministero degli Esteri italiano, una misura simile alla degradazione e alla fucilazione pubblica. Ora assolto dall’imputazione di associazione a delinquere, “perché il fatto non sussiste”
Il succo della storia è in questo contrasto romanzesco: l’ambasciatore Michael Giffoni, conosciuto da vicino, a lungo e sul campo – minatissimo, della Bosnia – era un campione di dedizione alla propria missione e di altruismo, oltre che di studio ed educazione; Michael Giffoni è stato l’unico ambasciatore destituito dal ministero degli Esteri italiano, una misura spettacolarmente simile alla degradazione e alla fucilazione pubblica. Il romanzo di quest’uomo ha toccato un capitolo spasmodicamente atteso lunedì, quando un collegio del tribunale di Roma composto da tre giudici, tre donne, ha pienamente assolto Giffoni dall’imputazione di associazione a delinquere, “perché il fatto non sussiste”, e di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, “perché il fatto non costituisce reato” (ne ha dato qui notizia Maurizio Stefanini).
La vita è strana, al punto che quando ho letto ieri un articolo sulla sentenza e sulla reazione – un pianto dirotto – di Giffoni, 57 anni, sul Corriere della Sera per la penna di Francesco Battistini, vecchio e amaro come sono, ne sono stato emozionato come un bambino. Il fatto è che il calvario di quest’uomo è durato finora sette anni, e i sette anni non sono bastati a invogliare l’informazione a occuparsi di lui – con eccezioni minime che dirò. Eppure era un caso clamoroso, e unico, ripeto. Non era mai avvenuto, e tanto meno per una negligenza nei controlli, per di più in un incarico e un territorio estremamente ardui come il Kosovo del Dopoguerra civile. Alla Farnesina i diplomatici, anche di un rango molto maggiore, possono esser colti con le mani nel sacco, e la conseguenza più severa è un tacito accordo per dimissioni e passaggio ad altre lucrose professioni. Attorno a Giffoni si è così fatto il vuoto: scomparsi gli amici, ferita la famiglia, azzerato il reddito – nessuno dà un lavoro a un ambasciatore radiato per indegnità. Sono arrivate le malattie, molte, gravissime, la tentazione di cedere, la decisione di resistere: per – e con – un figlio oggi dodicenne, una madre molto anziana, e un senso antico del proprio onore.
Dopo aver impegnato gli anni 90 nella Bosnia di Sarajevo e Srebrenica, poi alla guida della task-force per i Balcani dell’Alto rappresentante per la Politica estera Ue Javier Solana, e alla direzione dell’Unità per il Nord Africa alla Farnesina, dal 2008 Giffoni era stato il primo ambasciatore d’Italia in Kosovo. Nel 2013 si era accertato un traffico di visti e permessi di soggiorno nell’ambasciata di Pristina, condotto da un impiegato cui Giffoni aveva dato fiducia, figlio dell’Ibrahim Rugova dalla specchiata reputazione di “Gandhi kosovaro”. Ne venne, in Kosovo, un processo penale per il quale la procura escluse ogni responsabilità dell’ambasciatore: Giffoni non fu mai nemmeno sentito in qualità di testimone. In Italia, viceversa, la sospensione dal servizio (ministro, purtroppo, Emma Bonino) e poi la pena capitale, la cacciata (ministro Mogherini). Passarono molti ministri: Gentiloni, di cui tendo a pensare che conoscesse i fatti e la tempra di Giffoni, e via via gli altri. Intanto, per due volte il Tar annullò il provvedimento ministeriale e per due volte fu ignorato, fino a che il Consiglio di stato decretò che la sospensione durasse fino a un pronunciamento giudiziario. Solo allora la pratica ministeriale si trasferì alla procura, e quattro anni dopo è venuta la sentenza.
In questi anni ne ho scritto io, che sono malfamato ma esprimo opinioni e sentimenti sarajevesi, di giornalisti e di cittadini, fervidi e angosciati per la vicissitudine di Giffoni; Luigi Manconi, che ha presentato interrogazioni parlamentari ottenendone risposte incresciosamente evasive; Lorenzo Peluso, inviato in Afghanistan e cronista salernitano (nato a New York, Giffoni è cresciuto a Teggiano), e poco più, ammesso che ci sia qualcosa di più. Le competenze e la passione internazionali di Giffoni hanno trovato raro spazio nelle pubblicazioni dell’Ispi, presso la Fondazione Langer, nella rivista mensile Una città (nel marzo 2021 un lungo colloquio sul Kosovo con Bettina Foa e Edi Rabini, lo raccomando). Quanto al lunario, esauriti i risparmi, ha vissuto in paese, della pensione materna, salvi i pellegrinaggi romani di messo al bando e imputato.
Anni fa avevo scritto qui: “È stato un caso di giustizia ‘esemplare’ per linee interne, che ha rischiato già di annientare la resistenza fisica e morale di un uomo bravo, e che dà l’impressione terribile di una combinazione fra irresponsabilità e rigore. Estremi ambedue”. In una di quelle ignave risposte sottosegretariali si diceva che “l’amministrazione degli esteri continuerà a valutare la questione, sempre nel rispetto della normativa vigente e a tutela dei fondamentali princìpi di buon andamento ed imparzialità”. Alla Farnesina c’è oggi un ministro che ha dalla sua un’età giovane e, immagino, un desiderio di imparare. Forse avrà voglia di scorrere la pratica Giffoni, e vigilare che si concluda com’è giusto, finché ce ne sia il tempo. La sentenza romana può riabilitare molte persone, molte istituzioni.