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Romanzi che rievocano il Pci, da visitare come una chiesa sconsacrata

Adriano Sofri

In "Rosso di sera" di Ico Gattai, un funzionario di spicco e serietà a Pisa viene perquisito con addosso, suo malgrado, la marijuana di un gruppo reggae. Mentre "Il tesoriere" di Gianluca Calvosa indaga in una Roma del quarto uomo, crocevia del confronto fra Urss e Usa

Non avendo conosciuto il Pci dall’interno, leggo romanzi che lo rievocano come si visita una chiesa sconsacrata dal soffitto crollato. Nello svelto Ico Gattai, “Rosso di sera” (MdS, 113 pp.), la chiesa è quella provinciale di Pisa e il protagonista è un funzionario di spicco e serietà, Gibbì, tortuosamente tentato dall’amalgama fra il Partito e l’effervescenza già extraparlamentare. Le cose si trascinano fino a che, a metà anni 80, la Fgci riesce a organizzare un concerto del gruppo già di Bob Marley, e Gibbì patrocina la trasgressione. Solo che i giamaicani non suonano se manca l’erba, panico fra i promotori, Gibbì, intransigenza contro ogni droga fatta persona, si rassegna ad acquistare a caro prezzo dal disprezzato spacciatore, oltretutto suo privato rivale, l’urgente pacchetto verde. Pedala a tutta fretta verso la consegna quando va a sbattere contro un’auto, a Ponte di Mezzo, e il vigile che lo soccorre nota un rigonfiamento sotto la cintola. All’indomani i giornali locali intitoleranno: “GM, noto esponente del Pci pisano, trovato con un etto di marijuana nei pantaloni, dopo un incidente di bicicletta”. La Federazione comunica di averlo sospeso, e precisa che, al contrario di quanto pubblicato dalla stampa, “da anni non ricopriva incarichi ufficiali”.

  

 

Non si svolge nella provincia ma in una Roma del quarto uomo, crocevia del confronto fra Urss e Usa e nello spazio che comprende Botteghe oscure e Piazza del Gesù, ambasciata sovietica e americana, e le sovrintendenze concorrenti di Vaticano e Affari riservati, il romanzo verosimile di Gianluca Calvosa, frutto anch’esso della sconsacrazione universale, dalla galleria dei Resistenti partigiani ai notabili repubblicani, fino a una prova mancata dell’attentato a Moro (“Il tesoriere”, 390 pp., Mondadori). Ambizioso e abile, il romanzo dichiara il suo debito a Gianni Cervetti e al suo “L’oro di Mosca”. Ne raccomando la lettura, che è avvincente: io non corro il rischio di persuadermi che tutto ciò che avviene sia il contrario di come appare, e che non ci sia persona al mondo che non stia spiando altre persone e non ne sia a sua volta spiato, e penso che un racconto della storia spinto all’estremo della paranoia ben costruita possa magari eccitare un’ironia sepolta in lettrici e lettori contemporanei. Se no, peggio per loro. Proverò a parlarne con Ugo Sposetti, se e quando l’avrà letto anche lui. Siamo vaccinati.