piccola posta
Oltre 50 anni dopo, il “caso Daniel'-Sinjavskij” è ancora attuale
Ezio Mauro racconta una storia che ha coltivato per decenni e che sconvolse l’Urss ma anche l’occidente. Successe nel 1966, quando i due scrittori, i primi dopo Brodskij, ruppero la regola ferrea dei processi politici: si sono rifiutati di dichiararsi colpevoli, “né in tutto né in parte”
Ci sono grandi storie che si afferrano dalla coda, e poi si va all’indietro. Alla fine del 1988 Ezio Mauro era corrispondente di Repubblica a Mosca. Seppe della morte di Julij Daniel’, incontrò i suoi famigliari, non li lasciò più. La grande storia era successa nel 1966, quando due scrittori, Daniel’ e Andrej Sinjavskij, furono processati e condannati, a 5 e 7 anni di carcere duro, “per attività anti sovietica e propaganda reazionaria contro il regime sovietico”. Per aver scritto dei libri e averli pubblicati fuori dalla Russia – “tamizdat”, è il nome russo – con pseudonimi: Nikolaj Arzhak per Daniel’, Abram Terz per Sinjavskij. Il precedente clamoroso era “Il dottor Živago”. I due erano stati devoti a Pasternak e ne erano stati incoraggiati, ne avevano portato la bara. Affidarono i loro manoscritti alla stessa donna francese che aveva contrabbandato Živago.
Per più di trent’anni Mauro si è portato dietro la storia di Daniel’, continuando ad arricchirla di notizie e documenti. “Se non la racconti, non la saprà nessuno”, aveva detto Sania, il figlio di Daniel’. Quando una storia è per tanti anni la tua compagna intima, la fai tua – ti fa suo – finalmente decidi di raccontarla come un romanzo, che tenga insieme verità dei fatti e fedeltà dei sentimenti. Mauro è mosso da due impulsi decisivi. Il primo è la simpatia con l’uomo consacrato alla scrittura letteraria cui viene rubato il nome: per vedersi pubblicato si è trovato uno pseudonimo e ha corso il rischio – una certezza – di essere punito barbaramente. Da allora il suo vero nome diventerà impronunciabile, un nomignolo nelle carte degli investigatori, un numero nel lager, un altro pseudonimo, imposto, nelle rare occasioni in cui potrà lavorare da traduttore, un silenzio e uno sguardo distolto in amici e conoscenti spaventati. L’altro punto di Mauro è la scelta del più debole fra i protagonisti, l’allievo, il più in ombra.
Sono due. Coetanei, sono nati a Mosca nel 1925, a un mese di distanza. Moriranno uno nel 1988, il meno di spicco, l’altro nel 1997. Uno, il maggiore, ha una gran barba tolstoiana: un vero russo, andrà in esilio a Parigi. Il nostro è glabro, ha una sigaretta fra le dita o all’angolo della bocca, un’aria francese – potrebbe interpretarlo Yves Montand, in un film: resterà sempre in Russia. Quando gelosie e ipocrisie politiche rinfacceranno a Sinjavskij di essere diventato un dissidente di professione e di fare la bella vita, Daniel’ lo difenderà, e con lui la libertà di scegliere dove e come scrivere, senza tradirsi. “Li abbiamo incoraggiati a intraprendere la via crucis dell’esilio… Siamo amici, ci siamo nutriti della stessa cultura: chi ha lasciato il paese vivrà per noi là, noi vivremo per loro qui”.
Quello di Mauro è lui, Julij Markovičc Daniel’. Ebreo, scrittore, traduttore, poeta. Ferito al fronte nel 1944, a un braccio più gravemente. Condannato a 5 anni nel 1965. “Impiegare solo in lavori fisici pesanti”. Firmato tenente colonnello Georgij Pavlovicč Kantov, inquirente capo per gli affari di importanza speciale. In galera e nel campo si guadagna la solidarietà dei prigionieri comuni, che dapprincipio erano pronti a deriderlo ed escluderlo come un privilegiato. Basta questo a procurargli un ulteriore confino una volta scontata la pena. Potrà andare provvisoriamente a Mosca, finalmente, con un permesso che non indica quando dovrà rientrare, perché l’arbitrio del Kgb sia pieno, nelle concessioni come nei rifiuti. L’Urss di quegli anni sta tirando i freni dopo aver ceduto un po’ al disgelo. È il periodo peggiore, quando un modo di esercitare la tirannia è condannato, ma è ancora in grado di far molto male ai suoi sudditi. Sinjavskij e Daniel’ sono stati i primi dopo Brodskij a rompere la regola ferrea dei processi politici: si sono rifiutati di dichiararsi colpevoli, “né in tutto né in parte”.
Il colonnello giudice istruttore: “Di cosa tratta il suo racconto?”. Daniel’: “Parla di un segretario del Comitato provinciale di partito che si trasforma in gatto”. “Gatto?”. “Sì, è un’opera umoristica, grottesca. Anche Bulgakov parla di un gatto”.
La loro forza maggiore sta nella causa letteraria e poetica, prima che politica, che rivendicano. Michail Šolochov, appena premiato con il Nobel, nel 1965, si coprirà di vergogna nelle accuse contro di loro, durante il processo e peggio quando staranno nel tormento del lager. Per colmo d’infamia, li insulta ma non ne pronuncia il nome, anche lui. Si rende ridicolo: “In ogni gregge c’è una pecora nera…”, ma qui le pecore nere sono due (però “Il placido Don”, dirà Daniel’ a suo figlio, è un romanzo bellissimo…). Altre e altri saranno al loro fianco, e spesso pagheranno carissima la loro lealtà.
In occidente, “il caso Daniel’-Sinjavskij” fu esemplare. Il processo era stato ufficialmente “pubblico”, di fatto chiuso alla stampa straniera e a osservatori non asserviti all’accusa (Glasnost, era il nome della pubblicità dei processi…). Anche in Italia, dove l’intrepido “Libro bianco” scritto da Aleksandr Ginzburg usando gli appunti presi al processo dalle mogli degli imputati fu pubblicato da Jaca Book (benemerita: “Vita e destino” sarebbe venuto nel 1984) già nel 1966. Solidarietà limpida venne da scrittori come Herling e Silone, anche da Moravia, da riviste come Tempo Presente, da ambienti e personalità cristiane – soprattutto Sergio Rapetti, che vi arrivava da una drammatica biografia famigliare – e anche di sinistra, come il livornese di nascita e pisano di studi (oggi trentino di residenza) Piero Sinatti… Ottuso, se non peggio, il Pci, con pochissime eccezioni (la nostra Lisa Giua Foa aveva specialmente sofferto per Bucharin). Nel Partito socialista una vena libertaria si era mantenuta, e il 1956 era servito a restituire il premio Stalin: ma la Biennale del dissenso era lontana. Nella cosiddetta nuova sinistra, ancora in incubazione, devozioni sovietiche duravano in una gran parte, ripudii radicali prevalevano in un’altra, lettrice di “Buio a mezzogiorno” e “La rivoluzione tradita”, antistalinista dal principio, e tuttavia distratta sul dissenso e stupida su sé: non pensavamo solo che non potessero vincere, pensavamo di poter vincere noi, anche per loro… (in un gruppo come Lotta continua lo scioglimento coincise, per i più giovani, con una immedesimazione fervorosa nell’opposizione interna al socialismo reale, vicina a quella dei “nuovi filosofi” francesi, e nel recupero dei precedenti italiani di quella solidarietà). Più di mezzo secolo dopo, quella storia ha una tortuosa attualità, nel Nobel andato a Dmitrij Muratov di Novaya Gazeta, che l’avrebbe girato volentieri ad Aleksej Naval’nyj, e nel Premio Sacharov andato davvero a Naval’nyj. E anche nel ragionamento sulle statue: proprio attorno alle statue di Majakovskij e di Pushkin nacque il dissenso sovietico.
Giuliano Ferrara ha efficacemente detto l’ammirazione e il piacere letterario con cui ha letto Mauro, e basta anche per me. Che trovo in questo libro un gran passo nella sua produzione ingente, ora fomentata dall’impegno giornalistico meno pressante. Mauro ha una genealogia politica che comincia dall’anagrafe e dai primi passi: Dronero, Cuneo, Norberto Bobbio, Nuto Revelli… Una passione “azionista”: ma l’azionismo era composito, e Mauro ha tenuto all’anima “non anticomunista”, che dev’essergli sembrato il modo giusto di valutare la parte dei comunisti alla riconquista della libertà e all’emancipazione senza concedere all’ideologia e tantomeno alla sua realizzazione totalitaria. Gran parte del suo impegno recente ha profittato degli anniversari, e della combinazione fra stampa e filmati, per regolare i conti col Novecento della Rivoluzione russa, ancora col piglio del grande cronista, e col 1921 di Livorno – un ritorno a Turati, per andare al sodo. In questo libro, che perciò è un romanzo, la prospettiva si capovolge, e la storia rispettabile dei manuali serve a capire i pensieri, i dolori, il coraggio e la stanchezza di un uomo che ha amato molto i suoi, le donne, la foresta e la letteratura. Mauro, il suo autore, aveva un vantaggio: l’amore per la scrittura, l’intelligenza del desiderio di farsi un nome.