piccola posta
Il modo in cui parliamo della guerra in Etiopia dice molto sul resto del mondo
Gli osservatori la definiscono un altro Afghanistan, un'altra Siria, un'altra Libia, un altro Ruanda... Intanto la rottura nel paese farebbe strada alla discesa jihadista già aggressiva in Somalia, Uganda, Congo e Mozambico
Alla fine di una rincorsa alle innumerevoli notizie e commenti disponibili, il tentativo di raccapezzarsi sulla guerra civile (e internazionale) in Etiopia è frustrato. Soprattutto se si ceda ancora alla tentazione di decidere da che parte sta la ragione e da che parte il torto. Il governo di Abiy Ahmed Ali, che mise fine alla guerra dei vent’anni con l’Eritrea e fu alla svelta insignito del Nobel per la pace nel 2019 (pesante fardello, a 43 anni), ha mosso guerra nel novembre del 2020 al Fronte di Liberazione popolare del Tigrai, annunciando che l’avrebbe definitivamente schiacciato nel giro di una decina di giorni. Più di un anno dopo, sono le forze del Tplf a minacciare d’assedio la capitale Addis Abeba, con l’alleanza tattica, da sud, di milizie ribelli Oromo, l’etnia del padre del primo ministro. L’Etiopia è il secondo stato africano per popolazione, 115 milioni. La minoranza settentrionale tigrina, 7 milioni, aveva detenuto a lungo il potere politico, dopo esser stata decisiva nella cacciata del dittatore Menghistu, nel 1991. Nel corso di un anno, bombardamenti (è il governo centrale a disporre di aerei e droni turchi e iraniani), stragi, uccisioni, stupri di massa, torture, sono state commesse da tutte le parti. Più di due milioni di persone sono state sfollate. Molti milioni, per la guerra e per la siccità e le locuste, sono prive di cure e di cibo, soprattutto bambini e donne. Gli aiuti umanitari sono accanitamente impediti. Nella primavera del 2020 si assegnava al Covid-19 il quarto posto nelle epidemie, dopo colera morbillo e malaria. Le notizie aggiornate, non è facile decifrarle: se i morti di Covid siano relativamente pochi perché la popolazione è così giovane, o perché muoiano prima per altre cause.
Il modo in cui gli osservatori cercano di descrivere la situazione del grande paese, decisivo per il destino del Corno d’Africa, è un’involontaria, tremenda raffigurazione dello stato del mondo: l’Etiopia è “balcanizzata e prossima a un’esplosione come quella post-jugoslava”, “un altro Afghanistan” (Stati Uniti e paesi europei hanno già ordinato l’evacuazione dei propri cittadini), un’altra Siria, un’altra Libia, un altro Ruanda… Un altro Sudan, con cui confina – l’Etiopia confina con sei stati – e in cui è appena avvenuto un colpo di stato. Un altro Congo, quanto alla dimensione della fame. Truppe etiopiche avevano un ruolo di rilievo nella missione Onu in Somalia, e la sguarniscono perché vengono richiamate sul fronte interno. La rottura dell’Etiopia farebbe strada alla discesa jihadista già aggressiva, lungo la Somalia degli shabaab e l'Uganda e il Congo di nordest, fino al nord del Mozambico…
L’Europa, anche l’Italia, auspica che si depongano le armi. Intanto, per precauzione, si può progettare una costruzione di muri: sei lunghissimi muraglioni, quanti sono i confini dell’Etiopia, e alcuni altri ancora più alti, quante sono le fazioni intestine. Un affare mondiale.