piccola posta
Nel mondo di "Contessa" di Paolo Pietrangeli c'era bisogno di parole grosse
Il cantautore è stato ricordato come una persona cordiale, generosa, e anche ironica. Non sempre nelle canzoni, quando prevaleva la causa. L'inno del '68 è in realtà del '66, un mondo in cui la violenza aveva un senso diverso da quello che avrebbe preso poi. Contro le letture letterali di ieri e di sempre
Una volta ho sentito uno di tanti anni dopo che canticchiava dei pezzi sfusi di “Contessa”, e pensava che fosse una dei nostri, come “Princesa”. Bella idea, procedere a pugno chiuso nel suo nome. Nello pseudonimo, magari: anni fa titoli clamorosi annunciarono che a Roma era stata sgominata una casa di appuntamenti governata da una anziana signora chiamata “La Contessa”. (C’è una memoria della magnifica contessa di Castiglione: maestà, gradisca).
Paolo Pietrangeli è stato ricordato specialmente come una persona cui si voleva bene. Era come sembrava: cordiale, generoso, e anche ironico. Non sempre nelle canzoni, quando prevaleva la causa. Contessa, il celebre inno del ’68, era stata composta invece nel 1966, a ridosso della commozione per la morte di Paolo Rossi, studente socialista, diciannovenne, picchiato da una squadra fascista e precipitato dalla scalinata della Sapienza. Non erano, a Roma, i primi vagiti di un ’68 ancora lungo da venire: era un mondo d’ordine in cui al bar di piazza Istria il ventenne Pietrangeli orecchiava una conversazione di coppia del genere “Anche l’operaio vuole il figlio dottore, alla fabbrica di Aldo, non c’è più morale contessa”. Il mondo del secondo anno di escalation americana in Vietnam – ricordarsene a proposito dei versi: “ma se questo è il prezzo vogliamo la guerra”. Un mondo in cui c’era bisogno di parole grosse – “Vogliamo vedervi finir sottoterra” – e le parole grosse erano ancora al riparo dai fatti. Il rincaro delle parole era al sicuro. Ho cercato il testo per controllare se dicesse: “se c’è chi lo afferma (che le idee di rivolta siano morte) sputategli addosso”, o “sparategli addosso”. Sputategli, nell’originale. L’altra fu la variante più intransigente, più di sinistra, più.
Nel 2003 Claudio Sabelli Fioretti intervistò Paolo Pietrangeli. Gli chiese anche della violenza del testo di Contessa. “PP: Ma era violenza metaforica. E poi il testo era il dialogo tra un generale e una contessa e la risposta era la più violenta possibile. CSF: I ragazzi del Movimento capivano che era metaforica? PP: Certo che lo capivano. Non c’era clima di violenza in quegli anni. Qualche anno dopo le cose cambiarono. Io avevo scritto la canzone ‘Mio caro padrone domani ti sparo’. Era talmente granguignolesca che nessuna persona con un minimo di sale in zucca poteva pensare fosse un invito a sparare. Eppure, durante un concerto, dei compagni mi chiesero: ‘Come dobbiamo fare?’… Quando scoppiò il ’68, ‘Contessa’ era già pronta e conosciuta. Mi ricordo che proprio nel ’68 io andai ad una manifestazione a Pisa. Improvvisamente tutto il corteo cominciò a cantare ‘Contessa’. Fu uno dei momenti più belli della mia vita. Mi misi da una parte… CSF: A piangere? PP: Non mi ricordo se piansi. Ero molto contento”.
Sia detto in ricordo affettuoso di Pietrangeli. E a scanso delle letture letterali di ieri e di sempre.