piccola posta
Di palme e di banani. Qualche osservazione sullo scambio tra Grasso e Montanari
La piccola disputa botanica su Twitter tra il direttore dell'ufficio stampa del Quirinale e lo storico dell'arte è molto divertente e poco drammatica. Non dubitiamo del resto che Montanari sappia distinguere: la grande pittura è piena di palme illustri
Caro Tomaso Montanari, vorrei tornare alle palme e le banane, perché ho trovato lo scambio divertente piuttosto che drammatico. Del tuo estemporaneo interlocutore botanico, Giovanni Grasso, ho letto due libri, un romanzo dedicato al “Caso Kaufmann” e quello ultimo sul volo sopra Roma di Lauro De Bosis, “Icaro”: temi ambedue a me carissimi, e immagino anche a te. Tu sai che ci dividono la tua opinione che io sia, o sia diventato, troppo transigente, e la mia opinione che tu tenda a trapassare dall’intransigenza politica alla vecchia storia del tanto peggio tanto meglio. Niente di male, divergenze che sono il sale della cosa, quando non eccedano. Il paesaggio del Quirinale a capodanno l’ha mostrato esemplarmente. Tu hai laconicamente deplorato quel fluire illuminato di palme dietro le finestre come una riprova da repubblica delle banane, io ho ammirato le palme alte e rigogliose, oltretutto scampate alla micidiale epidemia del punteruolo rosso. E, in omaggio al principio bolscevico del meglio meno ma meglio, ho trovato che il discorso di Mattarella mostrasse nitidamente il confine fra una decenza repubblicana e una repubblica delle banane.
Detto questo, figurati se posso dubitare che tu non distingua fra una palma e un banano. La pittura, differenza di competenze a parte, ci unisce. La palma vi tiene un posto di gran riguardo, a segnare la gloria e la vittoria, o il martirio, e c’è Guido da Siena con le palme e l’albero delle meduse, c’è Giotto e la cosiddetta Domenica delle palme eccetera. C’è specialmente il caso della cosiddetta “Madonna della palma” di Urbino, attribuita a Raffaello e con questo credito acquistata dal Consiglio superiore delle Antichità e Belle Arti, nel 1968. L’inesorabile Federico Zeri la chiamò “il bidone urbinate” e ne denunciò sobriamente “la miseria dell’invenzione, la qualità abominevole del pigmento pittorico, l’incongruenza del tema iconografico e dell’anatomia”: imitazione al più del primo Ottocento. Tesi sostenuta a loro volta da storici americani con l’argomento che l’innesto delle fronde sul tronco nel quadro non corrisponde a una palma bensì a una cycas revoluta, originaria dell’Oceania e là riscoperta da Cook, due secoli e mezzo dopo Raffaello. Dunque rinominato “il Raffaello del capitano Cook”.
Apprezzata viceversa anche per l’appropriatezza botanica è la palma del vero Raffaello nella “Sacra famiglia con palma” a Edimburgo. Quanto alla tua controversia con Grasso sui frutti, c’è la bella favola dello pseudo Matteo che ispirò Correggio per la pala della Fuga in Egitto con San Francesco, agli Uffizi. Maria chiede a Giuseppe di raccoglierle i frutti. (In altre versioni si tratta di ciliegie, e così nella “Cherry Tree Carol” cantata da Joan Baez e gli altri). Giuseppe non ci arriva, e allora è Gesù a far abbassare i rami della palma e a riceverne i frutti dalla mano di Giuseppe: datteri.