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piccola posta

L'abitudine (interrotta) a segnarsi tutto

Adriano Sofri

A distanza di treantaquattro anni, la ricostruzione di una giornata

Caro M. S., andò così. Era il 2 marzo del 1988. Io venni alla Biblioteca di storia moderna e contemporanea in via Caetani per farmi prestare alcuni libri su Lauro De Bosis dal fondo Mario Vinciguerra. Poi passai dal Dizionario biografico, lì vicino, dove mi diedero le bozze della voce ancora inedita su De Bosis. Poi andammo insieme al ghetto a comprare i biscotti, e sulla strada, al baretto del Pci, sentimmo una battuta dubbia (“Va bbe’ che cià la moje ebrea, però m’ha rotto…”). 

 

Dopo gironzolai ancora un po’. Soccorsi, con una suorina, un barbone alcoolico rovinato contro un palo e scansato dai passanti. Problema di coscienza della suorina, cui lui, in una lingua ardua perché non aveva neanche un dente, continuava a dire: “Non mi lasciare”. Lo lasciammo dopo tergiversazioni e reciproci consulti, disinfezioni riluttanti in farmacia, e chiacchiere sulla difficoltà di aiutare tutti (“Ce n’è troppi”, “Già, ma allora, il prossimo?”…).

 

Incontrai Ginevra. Per scrivere un suo libro, intitolato “L’attesa”, si era messa in aspettativa.

 

Me ne tornai a casa in tram, il 13, da Monte Savello. Sul tram una donna anziana raccontava ad alta voce: “Una straniera ha preso un sasso, un mattone, e se l’è messo dentro la borsa. Alle Terme di Caracalla”. Poi ha aggiunto: “Be’, sempre un mattone di Roma è”. 

 

Segnavo tutto, allora. Avrei dovuto continuare.

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