piccola posta
Quando muore una lingua, insieme al suo popolo
Cristina Calderón, l’ultima depositaria dell'idioma Yagan, è morta a 93 anni nel sud del Cile. Un supplemento alla piccola posta di ieri è dedicato a lei, e sempre a Guido Vitiello del "Lettore sul lettino"
Caro Guido Vitiello, vorrei dedicarti un supplemento alla posta di ieri, e dedicarlo anche a Cristina Calderón, l’ultima india a conoscenza dell’idioma Yagan, morta l’altroieri a 93 anni nel sud del Cile. Le righe che seguono riguardano la disputa affascinante sull’origine del nome di Patagone, se Magellano lo avesse trasferito all’indio gigantesco catturato nel 1520, traendolo dal romanzo cavalleresco in gran voga, il Primaléon, o se al contrario l’autore del Primaléon l’avesse introdotto in una sua seconda edizione traendolo dall’invenzione di Magellano raccontata nel diario di Pigafetta. (Da un altro romanzo popolare, la continuazione dell’Amadigi di Gaula, derivò il nome di California).
“Era interessante che le due regioni estreme toccate nell’America del nord e nell’America del sud dai conquistatori spagnoli del sedicesimo secolo fossero state ambedue battezzate sotto l’influenza dei romanzi cavallereschi che erano la loro lettura prediletta. Per la verità non è provato che essi fossero più accaniti lettori di romanzi d’avventure della media dei loro compatrioti restati nel vecchio continente. Fatto sta che ben presto l’autorità regale ritenne di dover vietare l’esportazione dei romanzi nel nuovo mondo, per evitare che gli indigeni che imparavano a leggere, vedendo che quei libri erano divorati avidamente dagli europei, leggessero a loro volta con lo stesso piacere le storie poco edificanti. C’era soprattutto la preoccupazione che, se si fosse detto loro che quei libri così di successo erano di pura immaginazione, i nuovi lettori fossero indotti a domandarsi se i libri sacri del cristianesimo non fossero anch’essi di pura immaginazione. Il controllo meticoloso esercitato al porto d’imbarco di Siviglia sulle balle di libri destinati agli indigeni, controllo esteso fino ai bagagli personali dei viaggiatori in partenza, ha permesso agli eruditi moderni di inventariare le letture dei primi europei passati in America. Ma l’immaginazione storica aveva superato l’erudizione, e si era presto imposta l’idea che i romanzi di cavalleria contribuissero a suscitare fra i conquistatori una specie di follia o di allucinazione eroica, di chisciottismo avant la lettre, inducendoli a proiettare i sogni letterari sulla percezione della realtà. Senza arrivare fino a quel punto, Bernal Díaz del Castillo riferì che i suoi compagni e lui davanti alla strana civilizzazione del Messico avevano pensato di sognare e si erano creduti fra gli incantesimi dell’Amadigi...”.
Ecco. Quanto agli yaganes, non ebbero una lingua scritta. Cristina Calderón, l’ultima depositaria della lingua (i suoi numerosi discendenti non l’hanno più imparata) era stata nominata dall’Unesco patrimonio vivente dell’umanità. La storia dei nomi degli indigeni è un rompicapo istruttivo. Gli yamana si chiamavano in effetti yamana, che vuol dire semplicemente uomo, essere vivente. Il famoso missionario e linguista Thomas Bridges, autore del dizionario “Yamana-English”, li chiamò yahgan, abbreviando la parola yahgashaga, con la quale designavano gli stretti oggi detti di Murray, la montagna la valle e il canale, e per estensione quelli fra loro che ci abitavano. I francesi li chiamarono yammascoonas, scambiando per il loro nome la parola che era sembrata loro più frequente sulla bocca degli indii della costa. Che però significava: Abbi pietà! A loro volta gli inglesi, e per loro il capitano Fitzroy della Beagle, compirono una rivelatrice inversione letterale. Impiegando anch’essi la parola che sembrava più ricorrente, li chiamarono tekeenicas, che vuol dire: straniero, mai visto prima. Era la parola con cui gli indigeni designavano Fitzroy e i suoi! Altri ancora, per puro equivoco, li chiamarono yapoos, che vuol dire lontre.