piccola posta
Siamo stati vicini agli ucraini, poi un arbitro ha fischiato e si è sgombrato il campo
Siamo (quasi) tutti persone ragionevoli, e nessuno pensa che si possa andare a vedere le carte di un dittatore con 22 anni di anzianità, pronto a far pesare il suo arsenale nucleare. Ma la vergogna per aver abbandonato gli amici resta terribile
Fino a tre giorni fa suonava pressoché ovvia l’assicurazione dei capi dell’occidente e della Nato, che non sarebbero intervenuti militarmente in alcuna forma in Ucraina. Non tanto per il famoso articolo 5 del trattato del Nord Atlantico – “le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti…” – che è la motivazione istituzionale dell’astensione. Oltre che, di fatto, un’autorizzazione preventiva alla mano libera di Putin. Se esistesse un diritto internazionale – una Costituzione della Terra, come la chiede Luigi Ferraioli nel momento meno, o più, indicato – o come lo prevedono le Nazioni Unite, salvo che Putin e ogni altro grosso energumeno ha diritto di veto nel Consiglio di sicurezza.
Art. 5 a parte, siamo (quasi) tutti persone ragionevoli, e nessuna persona ragionevole pensa che si possa andare a vedere le carte di un dittatore con 22 anni di anzianità e un record insigne (a cominciare dall’esordio ceceno, “li staneremo fin dentro i cessi”, condotto come un vero genocidio), pronto a far pesare il suo arsenale nucleare. Pazzo o no – pazzo è chi pazzo fa – il Putin che firma l’assegnazione di due repubbliche minori da un tavolo solitario nel salone enorme e ghiacciato, scena che emula “Il grande dittatore”, e di lì a poco registra la minaccia di infliggere a chiunque si metta sulla sua strada punizioni mai viste né immaginate, induce le persone ragionevoli e responsabili a sottrargli ogni pretesto militare alla guerra mondiale e atomica, e ad accamparsi dietro le proprie linee formali, consolandosi con la favola delle sanzioni. E l’Ucraina? L’Ucraina sapeva quale fosse la partita, aveva scelto liberamente il proprio destino, nelle piazze e nelle urne. Così stavano le cose, fino a tre giorni fa.
Poi è successo. Era annunciato come non mai, ed è successo. La ragionevolezza è un sentimento resistente, soprattutto quando deve giustificare una promessa tradita, ma la vergogna è terribile. Si è stati accanto ai propri amici, mescolati con loro, a casa loro, a casa nostra, e improvvisamente un arbitro ha fischiato e si è sgombrato il campo, noi sugli spalti, qualcuno in tribuna numerata, molti nelle curve, e loro, soli, a giocarsela. Metafora povera, l’arbitro non è arbitro se non per l’arbitrio, e la partita non ha due squadre se non per il pigro vizio di chiamare guerra il confronto smisurato fra un colosso e un peso piuma. La vergogna non è attenuata, anzi!, dalla sensazione che la gente ucraina, quella rimasta sola, mostri una comprensione per noi che l’abbiamo abbandonata al momento decisivo.
Abbiamo messo bensì sul campo tanti dei nostri, armati solo di telecamere e macchine fotografiche (alcuni erano caduti, e non sempre dalla parte sulla quale abbiamo puntato), e il volto insanguinato di Olena ci è arrivato in cento pose. Vergogna, appunto. E dietro la figura di Volodymyr Zelensky, 44 anni, avvocato, attore comico, sceneggiatore, presidente ebreo eletto con una maggioranza dei tre quarti, trincerato dentro il palazzo di Kiev-Kyiv, è affiorata la memoria di Salvador Allende alla Moneda. Che c’entra? Niente. Quasi niente. Allende, 65 anni, medico, socialista e marxista, si uccise, o fu assassinato, da un golpe dei suoi militari felloni maneggiati dalla Cia, da Nixon e da Kissinger. Parti invertite, attori incomparabili. Ma a volte è la diversità a far risaltare tremendamente una somiglianza, e a rendere lancinante l’angoscia e la vergogna. Che è, adesso, quello che spetta a noi, ragionevoli e responsabili, com’è giusto essere.