Civili a Kyiv montano barricate (Ansa)   

piccola posta

Non c'è logica che tenga davanti a un popolo che si batte per non soccombere

Adriano Sofri

Stare dalla parte dell'Ucraina per lo squilibrio colossale con l'aggressore, e per un dettaglio: l'Ucraina sta dalla nostra parte. Potremmo non impegnarci noi nella mischia, in prima persona, ma cosa impedisce, davanti a un'aggressione per strada, di prendere il telefono e chiamare la polizia?

Ieri Michele Serra ha avuto uno strano pensiero. Ha pensato che i ministri degli Esteri, se non i primi ministri, e le altre autorità dell’Unione europea potrebbero andare a svolgere la loro attività a Kyiv-Kiev, scegliendo così di fare da scudi umani. E’ una buona idea, infatti. Immagino i commenti: perché non ci vai tu? Perché non servirebbe a niente, e comunque se occorresse accompagnare gli illustri scudi umani con una marmaglia volonterosa, credo che Serra ci andrebbe, e senz’altro anch’io. Lev Tolstoj, che dal 1851, quando aveva 23 anni, si era arruolato volontario nella guerra del Caucaso, nel 1853, scoppiata la guerra fra Russia e Turchia, chiese d’esser trasferito in Crimea.

 

Nei giorni scorsi qualcuno ha ricordato che in uno dei tre Racconti di Sebastopoli, quello del maggio 1855, Tolstoj ebbe “uno strano pensiero: che cosa accadrebbe se una delle due parti contendenti proponesse all’altra di allontanare dal suo esercito un soldato?… Poi mandarne via un altro, da entrambe le parti, poi un terzo, e un quarto, e così via, fino a che non rimanesse che un solo soldato in ciascun esercito. A questo punto, se necessariamente con la forza si devono risolvere, tra ragionevoli rappresentanti di esseri dotati di intelletto, questioni politiche già di per sé complicate, si affrontino pure questi due soldati, uno cinga la città d’assedio, e l’altro la difenda. Questo ragionamento può parere un semplice paradosso, ma è corretto. Quale sarebbe infatti la differenza fra un russo che combatte contro un rappresentante degli alleati, e ottantamila che combattono contro ottantamila? E perché non centotrentacinquemila contro centotrentacinquemila? Perché non ventimila contro ventimila? Perché non venti contro venti? Perché non uno contro uno? Una possibilità non è affatto più logica dell’altra. L’ultima, per contro, è molto più sensata, perché più umana”. Un duello, una buona idea (fa pensare, con qualche inquietudine, a Putin contro Zelensky, che poi a suo modo sta succedendo). Non successe, naturalmente, l’assedio di Sebastopoli fu lungo e feroce. 

  

Però la fantasia di Tolstoj conteneva fra parentesi una condizione: “(Ammettiamo che gli eserciti si equivalgano in potenza e che la quantità si possa scambiare con la qualità)”. Ora, applicata alla guerra di oggi, alla fine delle sottrazioni resterebbe un (1) ucraino contro 10 o 20 russi, quanto alla quantità; e ancora più schiacciante sarebbe lo squilibrio della qualità, se non altro perché la Russia è padrona piena del mare e del cielo, e può fare terra bruciata dell’intera Ucraina – lo sta facendo, dosando a piacere. Dunque ci troviamo di fronte a questo spaventoso squilibrio: che c’è un invasore e un invaso, e che l’invasore è smisuratamente più forte. A questa scena incresciosa – immaginiamola in un’aggressione stradale che avvenga sotto i nostri occhi – si aggiunge il dettaglio che l’invasore ha un disegno di autocrazia imperiale e l’invaso cerca di praticare il delicato modo di vita che chiamiamo democrazia. 

 

Io sto dalla parte dell’invaso, per quei due squilibri colossali che ho detto sopra, e per il dettaglio: lui – lei, l’Ucraina – sta dalla mia parte. In una condizione simile, non so immaginare che la persona che le sta buscando in un’aggressione stradale, il paese che viene bombardato in un’aggressione internazionale, e chiedono aiuto, non lo ricevano. Posso non essere in grado, o non sentirmela, di buttarmi io nella mischia, per paura, o per ragioni religiose, o per un principio personale, ma che cosa potrebbe impedirmi di fare un numero di telefono e chiamare la polizia? E quando anche fossi così spaventato e paralizzato da non riuscire a farlo, potrei forse mettermi a gridare per dissuadere chi invece sia disposto a buttarsi nella mischia e difendere quello che soccombe sotto una gragnuola di colpi?

 

E se avessi la forza di intervenire, dovrei aspettarmi di passare per uno che ama le risse stradali, che ama la guerra?

 

Lo so, è troppo facile metterla così, vero? E come altrimenti metterla? In questi giorni provo una pena esacerbata ogni volta – tantissime volte – che sento qualche sciagurato dire solennemente la frase: “Per la prima volta la guerra torna in Europa…”. E quasi di più quando qualcuno di quegli sciagurati dice solennemente: “In verità era già successo, con l’aggressione della Nato per il Kosovo nel 1999…”. La comunità internazionale non fu capace di soccorrere la popolazione kosovara, come sarebbe stato necessario, attraverso un’efficace interposizione terrestre, e scelse i bombardamenti contro la Serbia di Milosevic. Durarono quasi due mesi e mezzo, il conto delle vittime è controverso, furono almeno 2.500-3.000. 

 

Però prima, per dieci anni, fra il 1991 e il 2001, c’era stata la guerra fra le repubbliche della ex Yugoslavia, e in particolare, fra il 1992 e il 1995, la guerra di Bosnia. L’assedio di Sarajevo durò 43 mesi. A Srebrenica si perpetrò un vero sterminio genocida. Nella sola Bosnia-Herzegovina i morti furono almeno centomila. Nel corso di tutti quegli anni molte persone che si sentivano vicine al dolore del genere umano gridarono “pace”, gridarono “No alla guerra senza se e senza ma”, invocarono l’articolo della Costituzione secondo cui l’Italia “ripudia la guerra”: i più accorati si offrirono di mettere il proprio corpo sulle piste degli aeroporti da cui avrebbero potuto decollare gli aerei della Nato. Quando decollarono, nel 1995, quella guerra dei dieci anni finì. Se no forse non sarebbe mai finita, era quello che ormai si dicevano allora le donne e i vecchi e i bambini di Sarajevo e di Mostar. Clinton, che alla fine decise quell’intervento, nello stesso torno di tempo rifiutò di riconoscere come genocida lo sterminio dei tutsi (e degli hutu transfughi) che in cento giorni, aprile-giugno 1994, fece un milione di morti. Quattro anni dopo, a Kigali, Clinton se ne scusò, per sé e per “la comunità internazionale”. 

 

Sono ancora molte le persone che guardano all’Ucraina con angoscia e si sentono sinceramente vicine al dolore e al pericolo del genere umano, e le più zelanti non dicono solo “pace”, ma si impegnano a sventare il soccorso alla gente ucraina che lo invoca mentre si batte – con le armi, o fuggendo coi propri bambini. Dicono, alcuni, invitando alla logica: l’Ucraina non può non soccombere, troppo schiacciante è il divario fra la Russia e loro. Che senso ha che resistano, che li si aiuti a resistere? 

 

Già. Che senso ha? Che senso ha avuto?