piccola posta
Meglio la geografia della geopolitica
Oggi ha grande successo un campo di studi antipatico: dà l'impressione che le cose siano andate così perché non potevano andare diversamente. Programmi umani e personalità diventano poco più che accidenti effimeri. Eppure basterebbe poco per non essere prigionieri del fatalismo
Marina Ovsyannikova. Di qualunque cosa parliamo o scriviamo. Penso che non dobbiamo più scrivere una sola riga sui giornali, sui social media, sui muri, sugli schermi, senza scrivere prima il nome di Marina Ovsyannikova. Per noi, per continuare a figurarci che cosa abbia pensato, per giorni e notti, prima di prendere la sua decisione, e poi nei momenti in cui è apparsa nel telegiornale col suo cartello, e che cosa abbia pensato dopo esserne sparita e che cosa stia pensando ora, dovunque si trovi. Per provare a proteggerla. E perché sia un incubo per Putin. Un incubo.
E ora il resto. Le opinioni, e le convinzioni, sulla guerra d’Ucraina, non sono due, sono molte di più, sono andate in mille pezzi, e inducono ad avvilirsi, a diffidare della possibilità di trovare una concordia perfino sulla questione più fatale, la guerra e la pace, e perfino fra persone che hanno avuto e hanno tanto in comune. Ho avuto questa tentazione, una recidiva aggravata dello sconforto vaccinale, ma mi è passata, mi sono detto che c’è parecchio di buono in questa esplosione, che qualcosa aveva ancora bisogno di andare in frantumi prima che si provi pazientemente a rimettere insieme i cocci. Leggo ogni giorno le opinioni diverse e, salvi gli strafalcioni o le maramalderie, non m’importa che cosa dicano ma come lo dicano. (C’è infatti un modo di dire le cose che emula il cecchinaggio, e peggio per lui). Se lo dicono perché davvero tengono a imparare e capire, e a riconoscere un posto giusto, il più giusto possibile.
Intanto, quando si ricostruirà l’evoluzione dei tempi e dello spirito pubblico nel trentennio, ancora non riconosciuto come tale, del ritorno della guerra in Europa, dalla ex Jugoslavia a oggi, si misurerà l’ascesa e il declino della passione per i diritti umani. Temo che le iscrizioni ai corsi di Relazioni internazionali stiano precipitosamente cedendo il passo a quelle dei corsi di Geopolitica. Sarei ipocrita se non confermassi una antipatia per la geopolitica (la cosa, non le sue cultrici e i suoi cultori). Le antipatie non si spiegano, vengono e non c’è niente da fare, come certe allergie. In particolare, salutai con favore un ritorno della geografia, negletta fino al punto di essere espulsa dalle scuole, sacrificata da una prepotenza della storia che portava con sé l’idea che le cose fossero andate così perché non potevano andare diversamente: che quello che è reale sia razionale. La geografia sembrava spalancare porte e finestre e far riconquistare il piacere di pensare in lungo e in largo. La geopolitica però si fece forte della geografia proprio per restaurare, e irrigidire, l’idea secondo cui le cose succedono così perché non possono succedere altrimenti, e che fattori decisivi, lunghe durate, grandi spazi, climi e sottosuoli, memorie geologicamente stratificate, presentino inesorabilmente il conto e riducano a poco più che accidenti effimeri i programmi umani e il ruolo delle personalità. Anche quando il ruolo delle personalità diventa invadente e strepitoso come nel caso di Putin che si prende per Putin e ha in tasca la bomba. La geopolitica, anche la più minacciata dal rischio della sicumera, avrebbe una forte carta a suo favore: i suoi grossi errori di previsione. Per esempio, sull’abbandono dell’Afghanistan. Per esempio, sull’invasione dell’Ucraina. Le basterebbe rivendicarli: vedete, abbiamo sbagliato, non è vero che siamo prigionieri di una specie di fatalismo, non è vero che ci acconciamo a un realismo politico volgare e addirittura lo giustifichiamo. Ci sbagliamo, dunque potete fidarvi di noi.
Porca miseria, perché non lo dicono?