Piccola posta
L'inviato della guerra infinita. Quel che non entra nelle 38 righe quotidiane
L’insofferenza per il complottismo e per la mania di razionalizzare il caos. Il ripudio dei luoghi comuni e della pretesa che le vittime debbano essere buone per essere difese. Il libro appassionato di Lorenzo Cremonesi
La guerra d’Ucraina è una gran fucina di talenti giornalistici, uomini e più ancora donne, favorita dalla liberalità con cui da parte ucraina si sono accolti i media internazionali. Non era mai successo in questa misura, anche se la circolazione di giovani free lance è da tempo larga, in proporzione inversa al dimagrimento dei giornali e degli inviati tradizionali, salve poche robuste eccezioni. Una tappa rilevante fu la guerra – le guerre, i mattatoi – della ex Jugoslavia, trascurate da direttori di giornali e grandi inviati (non tutti, basti il favoloso Ettore Mo) persuasi che fatti così trivialmente balcanici non dovessero importare più di tanto al loro pubblico. Avevano così ragione, quanto a se stessi, che ancora oggi si scrive della lunga pace europea interrotta solo dalla Nato in Kosovo e Serbia (1999) dimenticando innocentemente la guerra cosiddetta civile che andò dal 1991 al 1995, durò quattro anni nella sola Sarajevo assediata, e costò dieci volte tanti morti. Sicché nella guerra ex jugoslava e soprattutto di Bosnia andarono inviati giovani e ansiosi di farsi le ossa e la carriera, e ne parteciparono mediamente con una gran passione. A un mese o poco più dall’inizio dell’invasione russa, alcuni dei migliori (sul serio) di quella leva, oggi a riposo, ebbero la malaugurata idea di investire le loro firme, una decina, per impartire una lezione alle e ai novellini: “Ecco, noi la guerra l’abbiamo vista davvero e dal di dentro”. Mettevano in guardia dal manicheismo del pensiero corrente, i buoni e i cattivi, facevano alcuni esempi affrettati e destinati ad esaurirsi (la strage negata nel teatro di Mariupol) e avvertivano che Putin non era il solo responsabile.
Mi chiesi con vero rammarico, oltretutto perché fra loro erano corrispondenti di guerra per i quali ho forte amicizia (lo scomparso Ricucci, Capuozzo, Vannuccini, Virdò...), che cosa li avesse spinti, e me lo chiedo ancora. Intanto sono passati sette mesi, e le giovani e i giovani giornalisti che, da free lance o da corrispondenti, hanno visto davvero la guerra e dal di dentro, si sono fatti le ossa – delle carriere non so. A luglio Francesca Sforza, per la Stampa, chiese a Bernardo Valli: “Come la stiamo raccontando, questa guerra?”, e lui le rispose: “Questa è una guerra antiquata, e colpisce la grande presenza femminile rispetto al passato: i corrispondenti sono in gran parte donne, immerse nella realtà, delle vere reporter, molto efficaci. Vedo una copertura sul posto molto seria”. Un mese prima Lorenzo Camerini, per Rivista Studio, aveva intervistato Lorenzo Cremonesi e gli aveva chiesto se il lavoro sia cambiato al tempo dei social network. “Sì, in meglio... Oggi non puoi mentire, ci sono le foto, hanno chiesto persino a me di farle per la prima volta dopo più di 30 anni di carriera, io che ho sempre e solo scritto. Qua ci sono giornalisti di 30-35 anni, tipo Tonacci e Raineri, che sono già sul campo. Gente che si fa il culo e rischia forte. ... Rispetto molto la nuova generazione di corrispondenti”.
Quando l’ho incontrato a Odessa, e l’avevo incontrato in Kurdistan e in altri luoghi, pensavo di conoscerlo: macché
Ho cominciato da questo episodio perché, se dovessi consigliare giovani aspiranti giornalisti in luoghi di guerra, direi loro di leggere le 1066 pagine di reportage di Bernardo Valli raccolte nel 2014 in “La verità del momento” (Mondadori). Le pagine di Valli sono naturalmente cresciute da allora, ed è singolare che con una guerra quasi mondiale nel centro d’Europa la sua voce non venga cercata. E adesso posso anche raccomandare di leggere le 560 pagine di Lorenzo Cremonesi, “Guerra infinita. Quarant’anni di conflitti rimossi dal Medio oriente all’Ucraina” (Solferino).
Nel 2015 tornavo in Israele da Gaza, tirandomi dietro il trolley nel lungo corridoio di nessuno che si fa a piedi, e mi veniva incontro a piedi un signore che entrava a Gaza tirandosi dietro il suo trolley: Bernardo Valli, allora 85 anni. Qualche sera fa, ai miei 80 anni, ho incontrato Lorenzo Cremonesi nel giardino pubblico di Odessa, dove ragazze e bambini ballano al suono dei concerti di strada prima del coprifuoco. Intanto, mentre era in Ucraina dal primo giorno, Cremonesi aveva pubblicato il libro della sua vita, della sua vita finora. L’ho letto meticolosamente, appassionatamente. Ci ho trovato delle conferme su punti decisivi. L’insofferenza per i cospirazionismi e le loro variazioni, per le razionalizzazioni del disordine e del caso. Il ripudio dei luoghi comuni melodiosi: “Le armi non sono mai la soluzione”. L’illusione, o la pretesa, che le vittime debbano essere buone e magnanime per essere difese.
Poi c’è il resto.
Cremonesi di anni ne ha 65, trasportati benissimo, ed è un provetto alpinista e ciclista. E’ in Ucraina dal 24 febbraio. Scrive e filma ogni giorno, dunque è ben lontano dal fare un bilancio. La prima cosa che colpisce del suo libro è che si mostra ispirato, lungi appunto dalla tentazione di tirare le somme e chiedersi come va a finire, da una fervida interrogazione su come è cominciata. Che cosa ha fatto di lui un tipo che si è immischiato nelle guerre degli altri, che ha rischiato la pelle, a volte a pochi centimetri di distanza, in una quantità di circostanze tragiche, drammatiche e rocambolesche. “Che cosa mi ha spinto, già dagli anni Settanta del secolo scorso, a dedicare il mio lavoro di giornalista e la mia stessa esistenza (a costo sovente di metterla a rischio) al racconto dei conflitti? Se cerco i motivi, mi accorgo che devo partire dalle origini, dalla mia famiglia, dai primi anni di scuola sino all’università”. Un tipo che non si è arruolato sotto qualche bandiera ma non è mai stato neutrale. “Da giornalista, assisto al braccio di ferro sempre più serrato tra paesi liberi e totalitarismi, tra governi eletti che garantiscono il dibattito, la critica, l’indipendenza dei media (perfino l’imporsi confuso e chiassoso dei social) e invece le nomenklature intolleranti che dominano con la forza, gli assassinii mirati degli oppositori, l’ingiustizia e il sopruso”. Mi piace scriverne proprio ora che, dai e dai, la resistenza ucraina ha ributtato l’esercito russo fin quasi alla frontiera e ha costretto i riluttanti telegiornali e quotidiani a invertire l’ordine delle notizie, prima l’Ucraina, secondo Carlo terzo.
Cremonesi ha messo dentro il suo libro quarant’anni di quello che gli altri raccontano o ascoltano raccontare dopo cena
Quando l’ho incontrato a Odessa, e l’avevo incontrato in Kurdistan e in altri luoghi del mondo disgraziato, e letto tante volte, pensavo di conoscerlo: macché. All’inizio c’è la famiglia, un suo versante resistente, uno ebraico: lui avrà un lungo tirocinio nell’Israele del volontariato dei kibbutz, che era stato un’esperienza socialista decisiva per molti giovani della generazione precedente, a cavallo del famoso ’68, ma si era andata presto esaurendo. Aveva partecipato di linguaggi e vicende esistenziali rivoluzionarie, “la sinistra extraparlamentare”, nella loro fase calante, quella delle accensioni esasperate e dei raffreddamenti ragionevoli. Più volte era tornato su quella esperienza liceale e universitaria, la conoscenza di coetanei che si erano creduti le avanguardie illuminate di una grande rivoluzione, pronti, pur di realizzarla, a uccidere e rischiare di morire. “I brigatisti che intendevano realizzare il Comunismo sulla Terra, completare i sogni del movimento partigiano rosso nel 1945”, gli sono sembrati una incarnazione del perenne fanatismo dell’uomo nuovo, affine nel suo intimo a quelle che, di tutt’altra ispirazione, hanno tenuto banco negli anni recenti, e specialmente quella jihadista. E’ il punto sul quale dissento, almeno nell’accento, perché mi sembra più rilevante nel caso del jihadismo cogliere novità e differenza piuttosto che replica e somiglianza. Ne ho scritto fin troppo e non mi ripeterò, se non per dire che le versioni del nostro “Siam pronti alla morte” stanno all’opposto della venerazione e del culto della morte dei “martiri” jihadisti. Ma il rimando agli anni ’70 consente a Cremonesi di realizzare un ritratto umanamente prezioso del padre Paolo Dell’Oglio, il gesuita “islamizzante” rapito e ucciso – certamente, benché non sia provato quando e dove – da coloro cui si era fraternamente dedicato. “E fu strano cominciare col raccontarci delle nostre rivolte studentesche di quattro decenni prima e delle conseguenze che quegli eventi avevano avuto sulle nostre scelte posteriori. “Mi ricordi quelli di Lotta Continua”, rammento che gli dissi scherzando, ma non troppo... Il suo sostegno per gli insorti – delle primavere arabe, di Siria – risultava chiaro, scritto nero su bianco: “Non ho bisogno di ripetere qui i motivi che fanno sì che io mi sia schierato dalla parte della rivoluzione, al punto di giustificare l’autodifesa armata di quel popolo tradito e abbandonato dall’opinione pubblica mondiale”. A suo dire, la paura di morire non poteva impedire di vivere sino all’estremo le proprie convinzioni. Era il suo modo di proporre un’urgenza etica che, in fondo, ricalcava il modo di pensare di tante ideologie del martirio. Mi colpiva il fatto che ciò venisse ribadito da un italiano della mia generazione, che argomentava ricorrendo a categorie e concetti a noi familiari”.
Sarete turbati e sconvolti dal racconto dell’ultimo viaggio di Maria Grazia Cutuli, e non lo dimenticherete
Ho appena rifatto l’esperienza della condivisione “fuori servizio” di una comunità di professionisti dell’informazione in una situazione di guerra, che brucia le distanze e i tempi. Il giornalismo di guerra funziona un po’ così: che il giornalista, della carta o del video, e il suo operatore, almeno altrettanto importante, o il loro fixer, non di rado più importante, sta al centro di avvenimenti spesso avventurosi o drammatici in cui “si fa la storia”, ma alla fine della giornata li riduce alla lunghezza di 38 righe, o di un minuto e 30 recitato in diretta, e poi va a cena, se il coprifuoco non gliel’ha fatta saltare, e allora si arrangia col frigobar. A cena o dopo, bevendo qualcosa – bisogna provvedere, col coprifuoco non si vende alcool dopo le 20 – racconta o ascolta raccontare la giornata, con i dettagli, le sensazioni, gli umori, gli aneddoti, che per definizione non entrano nell’articolo o nella diretta del telegiornale. La vera giornata. Questo è un privilegio. Cremonesi ha messo dentro il suo libro quarant’anni di quello che gli altri raccontano o ascoltano raccontare dopo cena, prima di andare a dormire e dimenticarsene, a meno che non tengano un diario e abbiano la fortuna di portarlo in salvo. Deve aver fatto così, perché il racconto è vivido e preciso come se riguardasse il giorno che sta per finire. In alcuni punti, e per le storie più emozionanti e commoventi, ne avverte il lettore, come per l’ultimo viaggio di Maria Grazia Cutuli: “Questa è la prima volta che narro quella vicenda per intero”. Senza arretrare di fronte alle leggerezze altrui, alla commistione di sentimenti e ragioni, all’assurdità e all’unica cospirazione inesorabile, quella del caso. Ne sarete turbati e sconvolti, non la dimenticherete.
Altre volte, il suo racconto è nuovo e intero non solo per l’ospitalità diversa della pagina di libro, ma per una confessata specie di censura, a fin di bene, forse. Su Nassiryia, per esempio. “Ancora una volta, i soldati sul campo erano stati abbandonati a sbrigarsela da soli e utilizzati come capro espiatorio. Lo scrissi abbastanza chiaramente? No, non credo proprio, ed ero oppresso dall’idea di non stare compiendo il mio dovere sino in fondo... Ero come schiacciato dalla retorica del lutto nazionale. Mi parve in quei giorni molto difficile e controverso poter svolgere un’inchiesta critica che suggerisse responsabilità dirette dei nostri militari, o addirittura evidenziasse l’inadeguatezza delle regole d’ingaggio dell’intera missione ‘Nuova Babilonia’ imposte dal governo. Lo avvertii già parlando con la mia redazione. In Italia prevaleva la retorica sui nostri caduti e feriti come vittime innocenti del terrorismo, anziché l’esigenza di fare chiarezza. Agli inviati si chiedevano le biografie dei morti, i ricordi commossi e commoventi dei commilitoni. Ma sul posto intuii che c’erano responsabilità anche italiane...”.
Non esita a confutare l’idea, pur carica di un’intimidatoria suggestione morale, che “le armi non sono mai la soluzione”
C’è l’altro luogo comune che Cremonesi non esita a confutare, benché sia carico anche di un’intimidatoria suggestione morale: che “le armi non sono mai la soluzione”. Equivale di fatto alla rimozione della legittima difesa, e dell’idea che esista un uso legittimo della forza, e un’istituzione cui vada affidato. “La guerra è alle nostre porte, ma non sappiamo che fare. Ci manca una cultura della difesa attiva dei nostri interessi. Appare evidente in Libia, in Siria, nel confronto con Egitto e Turchia, ma anche di fronte al braccio di ferro tra Washington e Pechino, alla politica espansionistica russa. Le maggiori crisi internazionali vedono un’Europa imbelle, passiva, impotente. Gli Stati Uniti non si batteranno più al nostro posto, o sono sempre meno disposti a farlo. Più rapidamente lo capiremo e prima impareremo a difenderci da soli, se non vogliamo essere sopraffatti. Questo, anche questo, ci hanno insegnato gli ucraini aggrediti da Vladimir Putin”.
Un giorno, a luglio, ho letto un reportage di Bruno Tonacci per Repubblica che parlava di missili in arrivo e droni in partenza e scriveva: “Qua e là esplosioni secche come raudi...”. Be’, non l’avevo mai sentito, pensai all’errore di stampa. Trovai che era il marchio di fabbrica di un piccolo petardo, i “Raudi Manna”, diventato nome comune, non so quando, alla fine dell’altro secolo, all’inizio di questo. Mi è venuto da sorridere quando ho trovato in Cremonesi la seguente rievocazione d’infanzia: “Fuori casa, le nostre armi poco segrete e molto rumorose erano le ‘miccette’, che esplodevano con un colpo secco lasciando un acre odore di zolfo. Le si comprava in pacchetti da venti lire anche dal tabaccaio di via Brunacci”.